La documentazione professionale dall’autoriflessione alla progettualità
Pubblicato nel n. 2 di Luglio 2006
di Consuelo Fiamberti
Mai come in questo ultimo decennio la documentazione professionale è stata riconosciuta come uno strumento irrinunciabile nel lavoro dell’assistente sociale; l’articolarsi delle funzioni del servizio sociale a fronte della crescente complessità della realtà sociale richiede l’acquisizione di capacità sempre più elevate di gestione di informazioni, notizie e dati da parte di tutti i professionisti. Non solo, la normativa relativa alla trasparenza amministrativa ha “costretto” gli operatori e le rispettive amministrazioni di appartenenza a porre una maggior attenzione alla qualità della documentazione anche per rispondere correttamente alle richieste che legittimamente possono giungere da parte dei cittadini.
Tale situazione, se da un lato ha consentito un positivo processo di crescita culturale e un utilizzo più rigoroso e competente della documentazione all’interno della comunità professionale degli assistenti sociali dall’altro rischia forse di “ingabbiare” l’operatore che, preoccupato di “produrre” una documentazione esigibile dal cittadino, rischia di “dimenticare” altri aspetti, connessi all’atto del documentare, a mio avviso altrettanto importanti sul piano professionale.
Questo contributo focalizza l’attenzione sulla funzione autoriflessiva della scrittura, e sugli esiti “formativi-terapeutici-professionalizzanti” della posizione che ciascun operatore, nel momento in cui si siede e scrive, assume.
Può essere illuminante coniare come metafora il titolo di un testo, memorabile come quello di Nuto Revelli “Il mondo dei vinti”, per rappresentare la scelta dell’operatore sociale che, “sedotto” dal mondo della sofferenza, opta quella scelta (del mondo dei vinti appunto) collocandosi paradossalmente in una posizione “altra” (che lo vede inserito nell’istituzione).
Tale posizione, su cui si è già tanto argomentato con analisi socio-politiche istituzionali[1], colloca e mantiene negli anni, l’operatore in una condizione emotiva di fragilità e sofferenza, in una condizione che definirei di “assedio emotivo”.
Forse è possibile ipotizzare che la scrittura, come atto riflessivo, possa aiutare l’operatore a mantenere una posizione di maggiore equilibrio sia rispetto alle difficili posizioni in cui è collocato, sia rispetto ai percorsi di aiuto che quotidianamente tenta di sperimentare.
Delimitando in questo modo il campo, considerando lo scrivere come un’attività elettivamente di natura riflessiva: scrivo per scrivermi per sviluppare conoscenza nel corso dell’azione (Schon, 1993) si possono allora distinguere alcuni esiti auto-formativi del mestiere di scrivere nel lavoro sociale.
Scrittura e riflessività
L’assistente sociale che ha da poco concluso un colloquio, ha nella testa una sovrapposizione di elementi di analisi del caso, impressioni, risonanze emotive, nessi con altre situazioni, impegni che stanno per subentrare… Nel colloquio si sarà ritrovato – come spesso succede – a presidiare la sua funzione di contenitore delle ansie connesse alla condizione problematica, potendosi concedere ben poco spazio mentale per dare voce alle proprie risonanze emotive e alle riflessioni di processo. Troppo centrato su di sé (attenzione al ruolo e al contesto istituzionale) o troppo centrato sull’altro (attenzione al problema e all’ambiente), spesso solo attraverso la scrittura può permettersi – al riparo dai feed-back talvolta paralizzanti del suo interlocutore – di pensarsi come soggetto in relazione.
In altre parole lo scrivere può consentirgli di fare posto all’altro dentro di sé, senza esserne eccessivamente invaso. Cosa sente, cosa ha sentito venendo a contatto con una condizione problematica? In che misura il suo sentire è un importante veicolo di conoscenza?
Seguendo il suggerimento di un’autrice come Elisabeth Bing[2] che, attraverso la sua abilità è riuscita a far dar voce al mondo interno dei bambini dell’Istituto medico pedagogico della Drome, in Provenzacon meritevoli risultati terapeutici, è possibile ipotizzare che la scrittura, come atto riflessivo, possa aiutare l’operatorerispetto alla conoscenza del proprio mondo emotivo.
Così come gli allievi di E. Bing (ib) attraverso la scrittura hanno dato forma a fantasmi e sogni, avviando un processo di elaborazione che ha loro consentito di acquisire una maggior consapevolezzasul proprio mondo interno, così l’operatore sociale può forse, attraverso lo scritto, dare una fisionomia ad alcuni fantasmi che spesso accompagnano il lavoro sociale.
Nella famosa lezione sulla Leggerezza di Italo Calvino, è l’eroe Perseo ad incarnare la figura tutelare dello scrivere: il nostro eroe vince lo scontro evitando di fissare negli occhi la mortificante Medusa, e prendendo la mira, per il lancio della sua arma, a partire dall’immagine riflessa nel suo scudo.
Fuor di metafora, lo scrivere diviene un atto riflessivo nella misura in cui consente all’operatore una posizione “altra” che mimando il gesto di Perseo potrebbe essere definita come decentrata, una posizione che lo metta in grado di osservare la durezza (l’opacità, la staticità, la pesantezza…) di realtà sociali spesso poco inclini al mutamento.
E’ patrimonio comune di assistenti sociali che lavorano da almeno qualche anno nei servizi socio sanitari, la consapevolezza della ripetitività e cronicità di alcune situazioni, la coscienza della difficoltà di innescare reali percorsi di cambiamento. Lo scrivere di tali situazioni può forse aiutare l’operatore ad abbandonare la posizione onnipotente che caratterizza i primi anni della professione, senza scivolare in una posizione depressiva, dove la distanza non è più la condizione decentrata che consente di osservare e riflettere, ma l’atteggiamento difensivo che permette di non più soffrire.
W. Ong[3] in un classico lavoro intitolato Oralità e scrittura, soffermandosi sui processi di pensiero peculiari della scrittura, ben illustra come lo scrivere doni all’uomo la distanza. L’autoreapprofondisce infatti le differenze tra le due forme linguistiche (il parlato e lo scritto) in particolare per quel che concerne le ricadute sugli stili di pensiero (tendenzialmente associativo nell’oralità; argomentativo nella scrittura).
E’ bene notare che per Ong (ib.) ma per molti scrittori – e se volessimo estendere il campo per molti artisti, primi fra tutti i fotografi – la distanza è un valore. Non tanto perché consente di recuperare uno sguardo maggiormente obiettivo sul fenomeno osservato – la post-modernità ha messo in discussione l’ideale della neutralità e dell’obiettività dell’osservazione – piuttosto, perché consente di recuperare uno sguardo decentrato: quando si scrive si è soli e si fa esperienza del portare avanti un pensiero senza la presenza di un interlocutore esterno. La scrittura consente infatti di sviluppare il pensiero dialogico ma per via introspettiva.
Per l’assistente sociale prendere le distanze non significa in questa prospettiva allontanarsi, inteso in un’accezione negativa di freddezza, esitamento, rigidità di ruolo, bensì porsi in una posizione maggiormente obliqua: lo scrittore-operatore ripensa al colloquio effettuato cercando di non far prevalere una posizione egocentrata (come se dovesse stendere il verbale del colloquio) ma ponendosi in un punto della stanza del colloquio dove sia possibile far luce sulla relazione intercorsa tra i tre interlocutori presenti: l’operatore, l’utente ed il contesto istituzionale[4]. Sul suo tavolo, un prisma (la cartella su cui scrive) riflette – come lo scudo di Perseo – ciò che è accaduto e gli consente di ritornare riflessivamente sul suo lavoro.
Scrittura come cura della dimensione emotiva dell’operatore
Scrivere per l’assistente sociale assume anche un’altra funzione, registrare una cartella diviene in primo luogo una necessità: nella confusione legata alla gestione di una situazione complessa, l’ansia del fare tipica del lavoro sociale rischia di sommergere aspetti che la scrittura consentirebbe di mettere a fuoco. L’operatore scrive per poter disporre di uno specchio (bisogno riflessivo) e di un argine (bisogno contenitivo) per poter affrontare nella realtà quotidiana situazioni complesse, anche perché emotivamente coinvolgenti. Anche Capello nel suo testo “Dal colloquio al testo” (1999) sottolinea la funzione di contenimento della scrittura che consente la presa di contatto con le proprie emozioni la loro modulazione ed espressione mediata e favorisce la pensabilità.
“La scrittura come farsi di un testo, organizza l’osservazione, mette in forma la realtà del vissuto, dà nuova struttura a ciò che era pensabile e dicibile, rappresenta un livello ulteriore…” in tal senso la scrittura propone un meta livello dell’esperienza: un ascolto dell’ascolto, un osservazione dell’osservazione, favorisce la pensabilità e con questo lo sviluppo del pensiero” (ib)
Stefano Ferrari[5], muovendosi all’interno di un paradigma di tipo psicoanalitico, afferma che la scrittura assume in primis la funzione della riparazione. Mimando le stesse modalità del lavoro del lutto (dalla perdita dell’oggetto reale alla sua ricomposizione simbolica), consente di dare voce ad una sofferenza che in prima istanza mette in scacco il soggetto, sospeso tra impotenza e dolore interminabile.
Del resto conosciamo bene le oscillazioni tra i due poli emotivi dell’agire sociale nelle situazioni di aiuto (rispecchiamento dell’impotenza <—————> pragmatismo sfrenato). Di fronte a problemi vissuti dall’utente come non risolvibili (altrimenti perché mai si sarebbe dovuto rivolgere ad un estraneo[6]. Ed è proprio all’interno di questo processo conoscitivo che incontra un’esperienza di perdita: il fallimento vissuto dall’utente, la scarsa presenza di risorse interne e/o esterne, la difficoltà di comunicare con lui, di proporre soluzioni apparentemente inappuntabili ma ancora poco adattabili al singolo caso,….. delle reti formali di cura?) l’assistente sociale cerca di conoscere la situazione pensando alle modalità di fronteggiamento del problema
Alcuni operatori non avvertono questa necessità; per molte persone scrivere rimane, nell’intera loro biografia, un’attività importante ma prevalentemente connessa ad un obbligo (“lo faccio per lavoro o per studio”). In questi casi si scrive allora perché “si deve” (per rigore professionale) oppure per poter disporre di un supporto mnestico (la memoria dell’intervento), o per finalità comunicative (la relazione per esempio). Alcuni assistenti sociali soddisfano l’esigenza di riflessività attraverso altre modalità (supervisioni, confronti gruppali, confronti con la casistica seguita nel corso del tempo..). Il bisogno riflessivo trova dunque altri canali oppure si ergono difese che lo saturano (chiusure, adattamenti a routine, disinvestimenti..).
In altri operatori la relazione con lo scrivere subisce profonde modifiche nel ciclo di vita lavorativo. Calvino stesso riconosce nella già citata lezione sulla Leggerezza che lo scrivere negli anni diviene meno agile, incontra la pesantezza della realtà e provoca – a maggior ragione nello scrittore di professione – il blocco di fronte alla pagina bianca. Similmente nella biografia degli assistenti sociali occorrerebbe osservare le vicissitudini della scrittura. Come si modifica la relazione con lo scrivere in una prospettiva diacronica? Come si gestisce la fatica che periodicamente ritorna (ma che diviene nel tempo più dolorosa) connessa al necessario isolamento che lo scrivere richiede?
Non è solo questione di organizzarsi spazi e tempi per poter scrivere. Evitando facili alibi, il problema è piuttosto connesso alla capacità e possibilità dell’operatore di mantenere uno spazio aperto (altrove si è parlato di una “ferita”[7]) per l’interrogazione riflessiva. Parafrasando Calvino, lo scrivere, in quanto mestiere, obbliga a dover fare i conti con la necessità infinita di apprendere e di ricominciare da capo.
Scrivere come processo di rielaborazione dell’esperienza
Attraverso la scrittura l’assistente sociale costruisce la storia che narrata, diviene frutto di interpretazione: egli si distanzia dagli eventi narrati cercando un senso ulteriore. La documentazione in tal senso assume anche una valenza progettuale per l’operatore che si confronta con le proprie interpretazioni ed ipotesi di lavoro.
Non è solo in campo l’importante funzione professionale della chiarificazione ma un altro aspetto peculiare del pensiero riflessivo: la progettualità.
Scrivere assume la funzione di accompagnare il processo di conoscenza del contesto, per prefigurarne gli sviluppi, le mosse future e i vincoli che si incontreranno
Questa funzione condensa allora alcuni importanti tratti del mestiere di scrivere:
la chiarificazione: lo studio della materia ma nel corso dell’azione trasformativa;
la progettazione: la prefigurazione del processo a partire dall’analisi del contesto;
la responsabilizzazione: lo scrivere – Barthes direbbe – non è mai un atto innocente; collocando me (l’assistente sociale) e gli altri all’interno della struttura narrativa e fissandoli nero su bianco, immetto una certa costruzione di contesto che influenzerà certamente il percorso di aiuto.
A questo proposito anche Bini[8] (8) sottolinea l’influenza della scrittura sul processo di aiuto: favorendo il processo interpretativo della realtà la scrittura comporta una sorta di “riorganizzazione” del significato attribuito agli eventi ed alle osservazioni. La “trasformazione” di eventi e di relazioni umane in documentazione, (oltre a porre il problema dell’oggettività da sempre presente nelle scienze sociali), “obbliga” l’assistente sociale a “scegliere”, selezionare tra prospettive differenti, assumere una posizione rispetto alla situazione di cui si occupa.
Come professionista che da circa 15 anni si occupa delle diverse fasce di utenza del territorio, con una particolare referenza rispetto a quella minorile, ho più volte condiviso con i colleghi la fatica di scrivere una relazione all’autorità giudiziaria minorile. In tale ambito documentare “carica” sulle spalle dell’assistente sociale la responsabilità di una scelta: l’operatore scrive e riscrive l’ evento, lo esamina da diverse prospettive, oscilla tra modelli teorici, propri schemi mentali e condizione emotiva legata al momento storico della sua biografia personale (matrimonio, maternità, separazione…) ; da questo punto di vista direi che metaforicamente “il sangue dell’assistente sociale scorre nelle righe della relazione”. E allora si potrebbe obiettare come mantenere la posizione decentrata, il distacco? Ma sono proprio questa fatica , questo percorso mentale, questa mediazione tra istanze diverse che costringono l’operatore al passaggio in una posizione altra. Ricordo lo sgomento di un formatore quando in sede di supervisione di gruppo, confessai di impiegare diversi giorni lavorativi, pur intervallati da altri impegni, per produrre una relazione al Tribunale per i Minorenni. Credo che tale fatica altro non sia che il risultato di tale complesso processo mentale che attraverso la scrittura accompagna l’operatore e lo transita da una posizione autoriflessiva ad una progettuale.
Conclusioni
Senza voler cadere in enfasi eccessive, la scrittura nella sua accezione riflessiva, quale strumento facilitatore di percorsi di analisi del proprio lavoro e di “cura” del mondo emotivo dell’operatore, può essere una possibile, anche se parziale, soluzione a fronte della complessità che caratterizza il lavoro sociale.
E’ attraverso di essa che l’operatore può esprimere il proprio “stile” inteso come il proprio modo di intessere forme e contenuti del suo lavoro, uno sguardo peculiare (specificamente personale e insieme professionale) sulle realtà sociali, un modo di costruire relazioni, di proporsi nei contesti, di “mettersi in rete”…
Abbiamo visto come all’operatore sia richiesto di accompagnare un processo di conoscenza e di cambiamento realistico, di passare e ripassare dal gioco delle ripetizioni (i casi sociali che negli anni mantengono invariate alcune caratteristiche socio-economiche, le “ricadute”, le resistenze: il lavoro del lutto) e come proprio in questo processo che la scrittura, scudo imperdibile di Perseo, possa sostenerlo nel suo processo di lavoro, aiutandolo ad apprendere dalla prassi (Zucca, 1996).
L’autenticità dell’aspetto “creativo, curativo” della scrittura è del resto confermata dal “ritorno” che gli studenti laureandi in servizio sociale presso l’Università del Piemonte Orientale, nei laboratori di scrittura[9], hanno espresso nel momento in cui, pur “costretti”, hanno preso la penna in mano e hanno scritto di quanto tale strumento sia loro servito, intravedendo in questo, forse più consapevoli delle precedenti generazioni, la futura “terapeuticità” di quel gesto. Un’allieva nella compilazione di una scheda di valutazione del processo effettuato, commenta “mi ha colpito la possibile funzione “contenitiva” della scrittura rispetto al mio futuro lavoro …,ho sempre scritto per prendere la distanza da alcuni avvenimenti della mia vita, ora so che potrà essermi di aiuto anche per il lavoro…”. Un’altra commenta:”ho sempre fantasticato sullo scrivere….mi affascina l’idea di poter lasciare memoria di ciò che farò.., anche il “potere” della mia biro rispetto alle realtà che conoscerò con il mio lavoro…”
Scrivere diviene allora un atto creativo di ricomposizione della memoria: un doveroso atto di testimonianza del lavoro sociale – la possibilità di recuperare l’autenticità di relazioni ancora possibili, un mezzo faticoso ma “potente” per contenere i rischi di degrado professionale.
Bibliografia
Allegri E., Supervisione e lavoro sociale, NIS Carocci, Roma, 1997
Barthes R., Il brusio della lingua, Einaudi, Torino, 1986
Bing. E., Ho nuotato fino alla riga, Milano Feltrinelli, 1977
Bini L., v. “Documentazione”, in Dal Pra Ponticelli, Dizionario di Servizio Sociale, Carocci, Roma, 2005
Bini L. Documentazione e servizio sociale, Carocci Faber, Roma, 2003
Calvino I., Lezioni Americane, Garzanti, Milano, 1988
Capello (a cura di), Dal colloquio al testo, Utet, Torino, 1999
Carli R., Paniccia R.M, Psicosociologia delle organizzazioni e delle istituzioni, Il Mulino, Bologna, 1981
Ferrari S., Scrittura come riparazione, Laterza, Roma-Bari, 1994
Ong, Oralità e Scrittura, Il Mulino, Bologna, 1986
Sanicola l. Trevisi G., Il progetto, Liguori, Napoli, 2003
Pittaluga, L’estraneo di fiducia, Carocci, Roma, 2000,
Schon D., Il professionista riflessivo, Dedalo, Bari, 1993
Zucca F., “L’operatore ferito: note ai margini della formazione e della sofferenza”, in La Rivista di Servizio Sociale, n.1/1996
Zucca F., “Il colloquio fra ricerca e prassi”, in La Rivista di Servizio Sociale, n.4/1997
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1 Nell’accezione della “doppia committenza” secondo P. Donati.
[2] E. Bing. “…ho nuotato fino alla riga”, Milano Feltrinelli, 1977
[3] Ong, 1986, Oralità e scrittura, Il Mulino, Bologna
[4] Carli R., Paniccia R.M., 1981, Psicosociologia delle organizzazioni e delle istituzioni, Il Mulino, Bologna.
[5] Ferrari S., Scrittura come riparazione, Laterza, Roma-Bari, 1994
[6] Pittaluga L’estraneo di fiducia, Carocci, Roma, 2000
[7] Zucca, 1996, L’operatore ferito: note ai margini della formazione e della sofferenza”, in La Rivista di Servizio Sociale
[8] Bini L. Documentazione e servizio sociale, Carocci Faber, Roma, 2003
[9] Ci si riferisce ai laboratori di scrittura rivolti agli studenti di II° anno del corso di laurea in Servizio Sociale della facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli studi del Piemonte Orientale.