IL SISTEMA ASSISTENZIALE DEL CRIMINE CAMPANO
OVVERO COME LE CAMORRE DIVENTANO DEI FENOMENI LARGAMENTE TOLLERATI
Alessandro Colletti
3/2009 n.s
Parlare di welfare criminale, un sistema assistenziale di protezione sociale profuso dalle organizzazioni criminali, appare chiaramente un ossimoro, una contraddizione. Infatti, per il solo fatto di esistere, le organizzazioni criminali generano danni sociali maggiori delle esternalità che producono. Inoltre, queste ultime non sono comunque elargite secondo logiche del diritto soggettivo, ma divengono facilitazioni frutto dell’arbitrarietà dei vari gruppi che, come vedremo, operano in forme eterogenee e utilizzano strumenti diversificati. Inoltre, i clan di camorra non promuovono diritti erga omnes come l’istruzione, se non quei principi antisociali che li caratterizzano; non creano ospedali, ma tentano di controllarne le articolazioni operative; non tutelano il bene comune, se ne appropriano. Ciò che i dirigenti dei clan elargiscono alle centinaia di affiliati e alle migliaia di fiancheggiatori, sono stipendi poco sopra la media e un minimo di sicurezza per le famiglie in caso di arresto o morte dell’affiliato, attraverso una primordiale assistenza economica e legale. Questo è oggi divenuto il livello standard delle prestazioni assistenziali maturato dai clan nello scorso cinquantennio, che ha visto l’evolversi delle compagini criminali presenti in Campania e nel resto d’Italia. L’entità e l’estensione dei benefici non è comunque statica, ma sta sempre in stretto rapporto al successo economico e professionale del gruppo criminale e al livello “occupazionale” ricoperto dall’affiliato/a. Una delle caratteristiche attuali nello scenario criminale campano è la diversificazione organizzativa dei gruppi presenti: si va dalle piccole bande criminali metropolitane che esercitano violenza come principale strumento per accaparrare risorse, alle grandi organizzazioni che presidiano il territorio con centinaia di affiliati e fiancheggiatori, fino alla costituzione di vere e proprie adhocrazie che includono capi-clan di diversi gruppi, professionisti di ogni sorta, politici, imprenditori, pubblici funzionari, insieme per operare con successo nei mercati economici nazionali e internazionali con azioni para-lecite. La fenomenologia del crimine campano risulta così estremamente diversificata anche nelle sue espressioni e negli strumenti utilizzati: tra le organizzazioni criminali italiane, quelle campane uccidono di più, ma allo stesso tempo gestiscono una grossa fetta dei 172 miliardi di euro l’anno stimati dall’Eurispes come l’intero indotto criminale italiano: l’11,3% del Pil nazionale. Cifra equivalente ai Pil di Estonia (25Mld), Romania (97Mld), Slovenia (30Mld) e Croazia (34Mld) messi insieme. È noto come una parte consistente di risorse economiche nei bilanci dei clan sia da sempre indirizzata a finanziare forme basilari di protezione sociale nei confronti dell’indotto criminale, senza il quale tali organizzazioni probabilmente non esisterebbero. L’insieme strutturato dell’offerta assistenziale viene infatti adoperato dai clan come precisa strategia di cooptazione: incentivare ampie fasce della società campana disposte a difendere i loro “protettori” e a commettere azioni illecite.
È altrettanto noto l’alto livello di penetrazione dei clan nella cosa pubblica e nei settori economici privati, attraverso l’utilizzo della corruzione e della violenza, minacciata o esercitata. In molti contesti territoriali e istituzionali oggi, in Campania, la logica basilare del diritto soggettivo appare irreparabilmente capovolta: ottenere appalti, lavoro, un esproprio, ma anche cure ospedaliere o interventi sociali, diventa un favore da chiedere alla persona che conta di più al momento. Con la certezza che quella persona verrà a chiedere il favore in cambio, prima o poi.
Il fenomeno dell'assegnazione di case popolari da parte dei boss della camorra a persone che non ne hanno alcun titolo,[1] sfrattando peraltro i legittimi assegnatari che per paura non presentano denuncia, è alquanto rappresentativo. Lo conferma un documento della Corte dei Conti del 2003 e la denuncia di Tommaso Pellegrino, ex-segretario nella XV Commissione Parlamentare Antimafia.[2] Gli uomini dei clan campani, in città come in provincia, hanno da tempo superato la posizione passiva che li vede controllare dall’esterno istituzioni economiche attraverso l’intimidazione e la corruzione. Oggi i boss penetrano nelle istituzioni e si radicano nelle imprese, piazzando i loro uomini nei punti chiave e di comando: primari di ospedali, direttori delle carceri, imprenditori che acquistano quote di società per controllarle, direttori del personale, responsabili di aziende turistiche, sindaci, consiglieri, dirigenti. Ilmodus operandi dei clan è oggi maggiormente rivolto all’iniziativa economica, al controllo gestionale e amministrativo, guidato dalle nuove generazioni di rampanti professionisti, cresciuti nei contesti dove quasi sempre dominano logiche criminali. È così che venne sciolta per infiltrazioni camorristiche la Asl Napoli4, primo caso di un’azienda sanitaria dall’entrata in vigore della normativa nazionale.[3] Un primato, accompagnato dalle indagini sulla gestione delle Asl Na5 e dell’Asl Na1, che ha messo in luce le strategie dei clan nella gestione di strumenti amministrativi e assistenziali più vicini ai cittadini. Così, il terreno degli appalti viene affiancato dal controllo gestionale. Non più ricatti, paura e violenza ma aggressività, persuasione, sopraffazione: gli uomini legati ai clan sono persone rispettabili, scaltre negli affari e generose con gli amici, incardinati nei livelli di governo direzionali e amministrativi delle organizzazioni più disparate. Nei non pochi casi di istituzioni pubbliche controllate dai clan, oltre l’ingrossamento dei costi di gestione in favore di una minore qualità dei servizi offerti, il livello di penetrazione nelle istituzioni pubbliche corrode le finalità di interesse generale e di esercizio etico delle professioni di sostegno e cura. In situazioni del genere, le lunghissime liste d’attesa per prestazioni socio-sanitarie diventano prassi; i disservizi alla cittadinanza, orientata così verso strutture private (molte volte condizionate dal potere dei clan o da essi gestite); i favoritismi nell’erogazione di servizi a parità di diritti dei richiedenti; le incomprensibili e inefficaci linee di indirizzo politico; i debiti di gestione.[4] In questo modo i clan non solo lucrano sui movimenti di denaro pubblico, ma elargiscono posti di lavoro a uomini di fiducia o familiari di affiliati, finendo per controllare tutte le articolazioni gestionali delle aziende e svolgendo la funzione socialmente apprezzata di centro di collocamento. Uno degli effetti perversi diffusi nelle istituzioni socio-sanitarie controllate dai clan è quello di riservare le migliori prestazioni di base e specialistiche agli affiliati e ai loro parenti, costruendo così una sorta diclientelismo criminale: hai problemi per un esame specialistico per cui c’è una lunga lista d’attesa? Rivolgiti al boss, troverà una soluzione. È così che i boss e i loro affiliati vengono percepiti come benefattori, più che tiranni. Questo fatto è ampiamente dimostrato non solo dalle pratiche gestionali dei grandi centri sanitari campani nei confronti di comuni cittadini, ma da molte inchieste della magistratura. Tra le tante, una che ha visto coinvolti affiliati, medici, agenti di polizia penitenziaria ed esponenti della dirigenza del carcere di Santa Maria Capua Vetere, spinti da uno scopo comune: evitare il carcere ad affiliati ai clan tratti in arresto. Il sistema, smantellato dalle indagini della Procura nel 2008, era così concepito: i dirigenti della struttura carceraria chiudevano un occhio sui rapporti particolari che gli agenti di polizia penitenziaria intrattenevano con esponenti del clan Belforte, ai quali arrivava droga, cellulari e altre merci vietate. Alcuni affiliati, su consiglio dei medici specialisti, assumevano in maniera massiccia e continuata le droghe oppure mettevano in scena i sintomi per simulare depressioni e, grazie ai dottori consenzienti, ricevevano certificati di incompatibilità con la struttura carceraria per diverse patologie fisiche e psichiatriche (ovviamente inesistenti).[5] Altro esempio dello stesso tipo ha visto trarre agli arresti due medici e un’assistente sociale dell’ospedale Gemelli di Roma, sempre accusati di favorire diversi esponenti criminali con false certificazioni mediche, tra cui Giorgio Lago, affiliato all’omonimo clan napoletano. Secondo gli inquirenti romani la mente del gruppo era l’assistente sociale/segretaria che curava i rapporti tra detenuti e medici specialisti per la produzione di false certificazioni.[6] Le modalità di controllo dei clan campani nel dirottamento di fondi pubblici non si limitano al solo settore sanitario (pubblico e privato), ma riguardano anche il sistema socio-assistenziale. È l’esempio del sequestro preventivo, effettuato nel 2006 in sede giudiziaria, di somme erogate dallo Stato per finanziare cooperative sociali di ex detenuti convenzionate con enti locali partenopei. Secondo le indagini i clan decidevano gli ingressi nelle varie cooperative e lucravano una quota della retribuzione individuale, che doveva essere periodicamente versata da ciascun lavoratore-socio. In molti casi i soci della cooperativa erano affiliati detenuti o agli arresti domiciliari, che pur non potendo svolgere attività lavorativa, usufruivano comunque dei benefici in denaro. I clan coinvolti nell’inchiesta (Alleanza di Secondigliano, Giuliano di Forcella, Misso della Sanità, Russo dei Quartieri Spagnoli) avrebbero addossato allo Stato la spesa assistenziale per i propri affiliati gestendo, solo per una delle 12 cooperative convenzionate con la Provincia di Napoli (La Vittoria III), dal 1996 al 2006 qualcosa come 25 milioni di Euro.[7] In questo, come nei casi precedenti, lo Stato investe in sanità e assistenza e i clan gestiscono i fondi, pilotandoli verso i propri affiliati o persone vicine ai clan, producendo contemporaneamente protezione e consenso sociale.
I fiduciari dei clan, che si confondono con gli esponenti dell’imprenditoria e della finanza, hanno maggiore potere di distribuire ricchezza, sicurezza, posti di lavoro, licenze, assistenza legale, sanitaria, merci rare e di massa: non c’è strumento di potere che possa sfuggire all’intraprendenza e all’influenza dei clan. I settori economici privilegiati sono quelli legati agli investimenti della pubblica amministrazione regionale, nazionale ed europea, ma non bisogna sottovalutare il peso finanziario dei clan nei settori privati: commercio internazionale, terziario turistico e avanzato, acquisizioni di società di capitali, edilizia privata, speculazioni finanziarie. Il clan basa molte volte la propria esistenza su un forte e strategico concetto di solidarietà: si prende cura di un affiliato dalla culla alla bara. Essere membro del clan può voler dire far nascere i propri figli nelle migliori strutture sanitarie pubbliche o private, festeggiare nei migliori ristoranti, godere di un buon reddito e vederlo tutelato in caso di arresto, fino ad arrivare alla facilità di trovare il miglior loculo nel cimitero del quartiere o nella città d’origine in caso di morte, naturale o violenta. Ovviamente non per tutti i fiancheggiatori la rete di assistenza è così estesa ed efficace: i piccoli clan, più simili a bande armate che a organizzazioni professionali, non offrono questo ventaglio di prestazioni, che in alcuni casi si limita a piccole cifre di denaro oppure alla spesa gratuita nel negozio taglieggiato, misure che devono essere necessariamente integrate. Quando infatti un clan riduce le risorse da destinare a scopi assistenziali, i suoi membri saranno spesso costretti a commettere atti predatori: scippi, rapine, furti, rapimenti. Reati che mettono a rischio l’incolumità degli affiliati e quindi la stessa sopravvivenza del gruppo.
Possiamo quindi affermare che dall’estensione della rete assistenziale dipende la sopravvivenza di un’organizzazione criminale.
Meno estesa ed efficace è questa rete, più gli affiliati saranno spinti alla commissione di piccoli reati, provocando la reazione delle agenzie di controllo e lo sdegno dei comuni cittadini: aumenta così il rischio di dissoluzione del clan. Maggiore sarà la professionalizzazione del gruppo, maggiore la rete assistenziale, minore risulterà la commissione di piccoli reati, di azioni militari e minore sarà il rischio di incorrere nell’intervento delle agenzie di repressione o della mano militare di altri clan.
La forza coesiva e di sopravvivenza di un clan è quindi direttamente proporzionale alla rete di protezione che riesce a creare nei confronti dei propri sostenitori.
Inizialmente si è fiancheggiatori, prestatori di opera, retribuiti attraverso compensi per singole azioni: manovalanza prevalentemente legata allo spaccio di sostanze, alle estorsioni e alle azioni militari. Poi, dopo un periodo di “formazione” criminale e se le capacità sono valutate positivamente, si accede a forme stipendiali molto superiori alla media di un lavoro legale e, in caso di morte o di arresto, a una dignitosa pensione per sé e per la propria famiglia, rapportata alla posizione dell’affiliato/a nel clan.
L’accumulazione finanziaria di un gruppo criminale ha come scopo principale il pagamento degli stipendi a quanti sono stabilmente inclusi nel gruppo. Più il gruppo criminale si radica sul territorio più aumentano i vantaggi di cui gode la parentela di un/a affiliato/a: assistenza legale, sanitaria, alloggiativa, certezza di trovare collocazione nel mercato del lavoro legale (come forma di copertura), assistenza economica attraverso l’accesso facilitato ai prestiti di banche e di istituti finanziari, fino al miglior tavolo nel ristorante in centro.
Molte volte il fatto che si sappia che si sta trattando con affiliati di un clan crea un deterrente difficile da ignorare per le persone comuni. È arduo interpretare le motivazioni che inducono pubblici funzionari e comuni cittadini a favorire, nell’esercizio delle loro diverse funzioni, esponenti o parenti delle organizzazioni criminali. La paura di ritorsioni personali è sicuramente una delle principali giustificazioni. In alcuni luoghi e contesti è più vantaggioso ignorare gli abusi, le prevaricazioni, le ingiustizie: la percezione comune è che il territorio appartiene ai clan. In “terra di camorra” la probabilità di ripercussioni personali o alla propria famiglia da parte dei clan è più concreta e palpabile delle pene inflitte dallo stato. La paura diffusa nella società civile è lʼaltra faccia della medaglia della mano assistenziale delle organizzazioni criminali: diffondere timore e allo stesso tempo senso di protezione è da sempre un punto strategico essenziale di ogni gruppo criminale.
Assistere le famiglie in stato di bisogno, offrendo lavoro e, quindi, assistenza. Colpire chi sbaglia o chi tradisce non solo con pene violente ma soprattutto attraverso la sospensione della rete assistenziale. Allora lo strumento dell’assistenza diventa l’arma più dolorosa per colpire i “trasgressori” e la logica dei clan diviene talmente ossessiva da superare anche la solidarietà familiare. È l’esempio di Rosanna De Novellis, 49 anni, vedova di Carmine Iovine, ucciso in un agguato nel 1994 e fratello di Antonio, superlatitante attuale reggente del Clan dei Casalesi. Alla donna vennero sottratte tutte le provvidenze elargite dal clan, a seguito della sua volontà di risposarsi con un uomo mal visto dalla famiglia di affiliati: prima il pagamento del mutuo per la casa di abitazione, poi lo stipendio mensile; le venne intimato di cedere la sua attività commerciale (un negozio di biancheria intima) fino al divieto di recarsi sulla tomba del marito. Le indagini della polizia hanno consentito di far luce sulle minacce di morte in seguito ricevute dalla De Novellis nonostante la richiesta di intervento formulata dal figlio della vittima, Oreste, a sua nonna, madre del latitante Antonio Iovine.[8]
I clan di camorra nascono nei quartieri delle città e nelle province degradate e, nel loro percorso evolutivo, quando raggiungono livelli di arricchimento elevati, non abbandonano il territorio, lo presidiano. La presenza del “Sistema” diventa così unʼopportunità per le popolazioni a rischio emarginazione/povertà, generando paradossali sensazioni di protezione e offrendo possibilità di ricchezza e tutela sociale senza le barriere dʼaccesso tipiche dei servizi pubblici.
Per avere un’idea delle facilitazioni di base messe a disposizione dai clan, presentiamo la seguente comparazione tra l’offerta assistenziale pubblica e quella criminale in Campania.
[tabella non presente: fare riferimento all’articolo cartaceo]
Analizzando più da vicino la rete di protezione offerta dai clan, emergono alcune caratteristiche sostanziali:
– lʼassistenza offerta dalle organizzazioni criminali si caratterizza per lo più in interventi di sostegno economico che incrementano (anche) il potere informale attribuito agli affiliati nel mantenimento dellostatus quo criminale;
– la criminalità organizzata pretende solidarietà (e omertà) tra affiliati attraverso una rete informale di protezione esterna e interna al gruppo criminale, che coinvolge anche le loro famiglie;
– la criminalità organizzata non crea servizi propri ma utilizza molte volte quelli pubblici, pilotandoli dall’interno nel favorire i propri affiliati.
Gli affiliati ai clan, i loro familiari e fiancheggiatori (stakeholders) hanno un notevole vantaggio in termini di accesso ai servizi rispetto ai cittadini comuni: anzitutto possono usufruire di servizi pubblici e di quelli criminali contemporaneamente; molte volte inoltre l’appartenenza o la vicinanza a un clan di camorra può diventare un plus valore per l’accesso ai servizi pubblici. Abbiamo accennato precedentemente l’alto livello di penetrazione dei clan nelle articolazioni operative della Pubblica Amministrazione e della società civile. È molto facile intuire che, in regime di risorse limitate destinate dallo stato sociale, laddove forte è l’influenza delle organizzazioni criminali, molte spesso sono proprio gli affiliati e i loro familiari ad essere favoriti nell’erogazione di risorse pubbliche, con la conseguente esclusione dai benefici di comuni cittadini. Un esempio molto rappresentativo è dello scorso anno: Adriana Graziano, moglie del presunto boss Adriano Graziano (arrestato nel luglio 2008) era al centro di una polemica che coinvolgeva l’Associazione nazionale familiari vittime della mafia e il Governo. La famiglia di Adriana, di cui faceva parte Antonio (ucciso nel 2004 da esponenti del clan Cava), ha ricevuto per questo motivo un indennizzo di 200.000 Euro e un vitalizio di circa mille Euro al mese per ogni suo componente.[9] Lo scandalo è stato denunciato dalla presidente dell’associazione Sonia Alfano, che ha dichiarato: “Già ad altre famiglie vengono concessi i benefici spettanti ai familiari delle vittime di mafia, pur essendo rinomatamente vicine ad ambienti mafiosi”.[10] Favorire un affiliato o un suo parente in “terra di camorra” è un fenomeno diffuso non solo in materia contributiva, nell’erogazione di servizi sanitari, nella concessione di mutui agevolati, ma anche nelle questioni più banali come evitare la fila ad uno sportello o ricevere la cortesia di un impiegato. Alcuni mesi fa, il fatto che bambini delle scuole elementari di Miano, nella provincia di Napoli, definissero i camorristi come loro protettori generò scandalo nell’opinione pubblica nazionale. Frasi come «La camorra ci protegge, e se qualcuno vuole farci male i clan ci difendono» scritte da una bambina di 13 anni, dimostrano quanto vero sia, in alcuni casi, il senso di protezione percepito dai comuni cittadini nei confronti dei clan. «C'è gente che odia la camorra, io invece no, anzi a volte penso che senza la camorra non potremmo stare, perché ci protegge tutti, pure il fatto che tutti pagano il pizzo non è giusto, ma chi paga resta protetto». Senso di protezione ma anche paura e soggezione: «Se qualcuno di un'altra zona avesse l'intenzione di farci del male o di ricattarci loro ci difendono, ma se c'è tra loro una discussione non guardano in faccia proprio a nessuno e ci vanno di mezzo persone innocenti».[11]
La paura di ritorsioni militari non è l’unica motivazione che spinge i favoreggiatori ad incoraggiare gli affari dei clan, perché spesso prevale l’incentivo economico e la sensazione di trovare rivalsa alle ingiustizie, passando dal ruolo della vittima a quello del carnefice. Il radicamento territoriale delle associazioni criminali non è quindi il solo prodotto della forza intimidatoria, ma soprattutto del consenso sociale, visto che il fenomeno dell’affiliazione nasconde, in realtà, un modello di scambio economico e di valori tra il gruppo e il singolo che si assicura una retribuzione economica e una solida rete assistenziale.
Bibliografia essenziale
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Questa corte condanna. Spartacus, il processo al clan dei Casalesi
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La mafia è bianca
Milano, Rizzoli, 2005
Braucci Maurizio, Zoppoli Giovanni (a cura di)
Napoli comincia a Scampia
Napoli, L’ancora del mediterraneo, 2005
Esposito Maurizio
Uomini di camorra. La costruzione sociale dellʼidentità deviante
Milano, Franco Angeli, 2004
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Diario di una coscienza. Io Nunzio Giuliano
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Iovene Bernardo
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La Spina Antonio
Mafia, legalità debole e sviluppo del Mezzogiorno
Bologna, Il Mulino, 2005
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Comportamento criminale, ecomafie e smaltimento dei rifiuti
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Gomorra. Viaggio nellʼimpero economico e nel sogno di delirio della camorra
Milano, Mondadori, 2006
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O’ Sistema. Un’indagine senza censure sulla camorra
Milano, Rizzoli Editore, 2006
Violante Luciano (a cura di)
Mafie e antimafia. Rapporto 1996
Bari, Laterza, 1996
Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno della mafia, XIII, XIV e XV Legislatura, Relazioni
finali, audizioni e documenti vari prodotti nelle citate legislature, consultabili suhttp://www.parlamento.it/parlam/bicam/home.htm
[1] Roberto Paolo, Napoli, in mano ai clan le case del Comune, Il Tempo, 3 dicembre 2008http://iltempo.ilsole24ore.com/interni_esteri/2008/12/03/959848-napoli_mano_clan.shtml
[2] Camera dei Deputati, Interrogazione a risposta scritta 4/03364, Primo firmatario PellegrinoTommaso, Gruppo: VERDI. Data firma: 19/04/2007, Destinatari: MINISTERO DELL'INTERNO,
[3] Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sede di Napoli, Prima Sezione, Sentenza sul ricorso n°7410/2005R. G. http://www.issirfa.cnr.it/download/TAR%20Campania-NA.2006-2874.pdf
[4] Conchita Sannino, Campania: clan, tessere e parenti. In ospedale vince il malgoverno, La Repubblica, 4 marzo 2008,http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/03/04/campania-clan-tessere-parenti-in-ospedale-vince.html
[5] Raffaele Sardo, Perizie false per i boss dagli amici insospettabili, La Repubblica, 22 aprile 2008 pagina 2 sezione NAPOLI,http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/04/22/perizie-false-per-boss-dagli-amici-insospettabili.html
[6] RaiNews24, False certificazioni per uscire dal carcere, 12 arresti a Roma, 7 luglio 2008http://www.rainews24.rai.it/notizia.asp?newsid=83564 oppure vedi
Metropolis.web, Blitz anticamorra, i medici favorivano le scarcerazioni: 23 arresti, 21 aprile 2008
[7] Dario Del Porto, Ai clan i soldi erogati dallo Stato per un cooperativa di ex detenuti, La Repubblica di Napoli, 8 dicembre 2006 http://espresso.repubblica.it/dettaglio-local//1453432&print=true
[8] Dario Del Porto, Presa la moglie del latitante Iovine l' accusa: taglieggiava sua cognata, La Repubblica sezione di NAPOLI, 10 luglio 2008 pagina 6
[9] Carmine Spadafora, Moglie del boss col vitalizio per vittima di camorra, 12 ottobre 2008, Il Giornale, http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=297415
[10] Nicolo Conti, Familiari Vittime di Mafia: Si intervenga sulla vergogna dei benefici alle mogli di presunti boss, 11 Ottobre 2008, http://www.soniapresidente.net/news/familiari-vittime-di-mafia-si-intervenga-sulla-vergogna-dei-benefici-alle-mogli-di-presunti-boss/
[11] Daniela De Crescenzo, Le confessioni degli alunni di Miano: la camorra c’è e se qualcuno ci vuole far del male, loro intervengono, Il Mattino, 21 aprile 2008