Il pensiero riflessivo e l’inchiesta dell’assistente sociale
G. Certomà
2/2010 n.s
Il pensiero nasce dall’azione per ritornare all’azione.
Aldo Visalberghi
Alcuni studiosi (neuroscienziati, psichiatri, psicologi, ecc.) sostengono che l’emozione non può essere esclusa dal processo di ragionamento. Anzi la partecipazione dell’emozione al processo di ragionamento può essere vantaggiosa nell’ambito della vita intellettuale e pratica. Per essere più chiari diciamo che l’emozione ha un ruolo importante nell’intuizione. Perché l’emozione è «quel rapido processo cognitivo grazie al quale si giunge a una particolare conclusione senza avere la consapevolezza di tutti i passaggi logici immediati che hanno condotto a essa. Non è che la conoscenza dei passaggi intermedi sia necessariamente assente; è solo che l’emozione produce la conclusione in modo così rapido e diretto che non occorre richiamare alla mente molte informazioni. Questo è in armonia con un vecchio detto secondo il quale il caso favorisce la mente preparata».[1] L’intuito è una facoltà che designa una rapidità di percezione e di giudizio nel cogliere il vero, «se anche l’esposizione dimostrativa segua più tarda o riesca imperfetta al confronto di quel lampeggiamento originario».[2] Per mezzo dell’intuito si sente quel che è vero e quel che è falso, senza avere la possibilità di poter fornire delle dimostrazioni, ma con la certezza di poterlo fare poi. Tutto ciò ci induce a dire che solo l’intuito può dare la possibilità all’assistente sociale di valutare e comprendere una situazione esistenziale problematica. Dunque solo un assistente sociale forte d’intuito può essere capace di guardare dentro le cose sociali perché l’intuito, non è altro che il pensiero, «l’unico pensiero; con la sola avvertenza, che è il pensiero nella sua reale energia».[3] Per meglio dire: i giudizi relativamente immediati che l’assistente sociale riesce ad esprimere, attraverso il processo intuitivo, non precedono la ricerca riflessiva, ma sono il prodotto ben fondato di un esercizio costante di pensiero. Possiamo allora dire, con le parole del grande psicologo Vygotskij, che il pensiero stesso «nasce non da un altro pensiero, ma dalla sfera motivazionale della nostra coscienza, che abbraccia i nostri impulsi e le nostre motivazioni, i nostri affetti e le nostre emozioni. Dietro al pensiero vi è una tendenza affettiva e volitiva».[4] Il pensiero è un modo di organizzare l’intuizione, «la percezione e l’azione».[5] Da qui emerge il fatto che noi in tale sede vogliamo occuparci solo del pensiero riflessivo, cioè di quel particolare pensiero che è legato alla pratica dell’agire e del trasformare. A nostro avviso, il pensiero riflessivo è molto importante perché esso giunge a seguito di qualcosa, provenendo da qualcosa e in vista di qualcosa. Al contrario non ha per noi nessun significato o valore quel pensiero che dialoga con se stesso o che rifletta su se stesso, e che non sorga in risposta ad una occasione che lo suscita. Quindi per noi non è importante porci la domanda: che cosa significa pensare.[6] Ma come pensare qui ed ora. Stando così le cose, noi non siamo d’accordo con chi dice che il pensiero non risolve i problemi e non procura forze per l’azione. Perché per noi il pensiero è essenzialmente problema, e identificandosi con la criticità e la riflessività è negazione di ogni concezione dogmatica della verità. Il pensiero «è uno sforzo, un passare da certi termini a certi altri, un muovere e un allontanarsi da elementi tali che, così come si presentano, non soddisfano il suo interesse. Questi elementi possono chiamarsi i dati del problema, mentre la situazione in cui il pensiero, rispetto a questi dati, raggiunge uno stato di maggiore soddisfazione, si può dire la soluzione del problema».[7] Da un lato il pensiero è sempre problema, non è mai certezza. Dall’altro il pensiero è soluzione del problema, cioè eliminazione dell’incertezza. Quindi il pensiero non è solo criticità, problematicità, riflessività, ma è nello stesso tempo la fiduciosa capacità di risolvere ogni angoscia problematica del dubbio e della diffidenza. Nei confronti del problema il pensiero esercita una vigile attenzione e preoccupazione che si risolve nella consapevole volontà di trasformare il problema in soluzione. Per usare un linguaggio diverso possiamo dire che il pensiero ha origine nell’esperienza di conflitti specifici che suscitano perplessità e turbamento. «Allo stato naturale» – Dewey scrive – «gli uomini non pensano se non hanno problemi da affrontare, difficoltà da superare…La prima caratteristica che contraddistingue il pensiero è quindi di affrontare i fatti con l’indagine, l’esame minuzioso e ampio, l’osservazione…Il pensiero quale metodo per ricostruire l’esperienza tratta…l’osservazione dei fatti come il passo indispensabile per definire il problema, localizzare il guaio, arrivare a un senso preciso, e non solo vago ed emotivo, di che cos’è e dove sta la difficoltà. Non è ozioso, aleatorio, non ha uno scopo, ed è specifico e delimitato dal carattere del problema; vuole chiarire la situazione confusa e problematica perché emergano nodi ragionevoli di affrontarla».[8] Il pensiero mosso dal dubbio e dall’incertezza spinge all’indagine in quanto il suo scopo è quello di voler conoscere e comprendere come stanno le cose per poterle poi trasformare. Per poter risolvere, però, uno stato di dubbio, d’incertezza e di difficoltà che si riferisce al problema da risolvere, il pensiero è portato ad un attimo di sosta, di esitazione e di sospensione. «Si è in grado di pensare riflessivamente solo allorquando si è disposti a prolungare lo stato di sospensione e ad assumersi il fastidio della ricerca…Per essere genuinamente pensanti, noi dobbiamo sostenere e protrarre quello stato di dubbio che stimola ad una completa ricerca, in modo da non accettare un’idea o asserire positivamente una credenza finché non si siano trovate fondate ragioni per giustificarle».[9] Per dirla con una bella immagine di Dewey «nello stato di sospensione determinato dall’incertezza, noi metaforicamente saliamo sempre su un albero; ci sforziamo di trovare un punto di vista dal quale esaminare nuovi fatti e dal quale, una volta raggiunta una veduta che ci faccia meglio dominare la situazione, decidere come stiano i fatti nella loro relazione reciproca».[10] Il pensiero riflessivo dell’indagine si conclude con un giudizio (o una valutazione) in connessione con la soluzione del problema, ossia il giudizio da formulare è determinato dal proposito di risolvere il problema. Il giudizio (o la valutazione) «è un giudizio relativo a cosa fare o a ciò che deve essere fatto».[11] Il giudizio (o la valutazione) formulato termina in una decisione determinata, quale soluzione di una situazione fino allora indeterminata. Dal punto di vista strettamente professionale, la valutazione è una fase di fondamentale importanza. Essa «consiste in un processo continuo di correlazione di informazioni, necessario per una adeguata conoscenza e comprensione della situazione delle persone coinvolte».[12] L’assistente sociale valuta in più momenti della propria attività professionale: valuta le domande al momento dell’ accesso dei cittadini al sistema dei servizi, valuta quando il Tribunale gli chiede di realizzare indagini sociali, valuta gli esiti del proprio lavoro, in itinere, quando si ritrova a dover ripensare, in corso d’opera, i progetti di intervento individualizzato, valuta gli esiti dei progetti di prevenzione e di sviluppo di comunità, valuta i servizi che deve coordinare, valuta le politiche territoriali quando ha funzioni di programmazione zonale ecc.».[13] Un esempio concreto di valutazione ce lo fornisce il servizio sociale penitenziario: «L’inchiesta sociale…può essere definita come una raccolta e un’organizzazione di dati concernenti la vita di un soggetto, considerato sia nelle relazioni familiari che in rapporto con l’ambiente sociale di appartenenza. Per quanto riguarda il campo applicativo penitenziario, si può dire che tale indagine offre la possibilità, alla magistratura di sorveglianza che deve assumere una decisione…, di orientare la propria attività sulla base di una valutazione complessiva del caso, che includa gli aspetti personali e socio-familiari, determinanti, per la comprensione del caso stesso e per la soluzione di problemi umani che questo presenta».[14]
L’argomento merita un approfondimento. L’assistente sociale conosce le situazioni problematiche attraverso l’intuizione, la percezione e il pensiero riflessivo, ma le conosce in modo intelligente quando siano determinate «come conseguenze di operazioni connettive».[15] Quanto più connessioni ed interazioni riesce a cogliere, tanto meglio conosce le situazioni che sta trattando. Il pensiero riflessivo dell’assistente sociale, che è sempre legato all’azione, è la continua ricerca di connessioni e interazioni nell’ambito della persona e del suo ambiente e nelle infinite realtà. L’assistente sociale assumendo il ruolo attivo dell’agente deve cercare di scoprire le interazioni tra l’uomo e il suo ambiente in un rapporto di reciproca connessione, e considerarle come parti di un unico processo comune. Ciò deve essere fatto in quanto l’uomo è nell’ambiente; l’ambiente è nell’uomo. L’inchiesta sociale, però, non è solo un processo conoscitivo che nasce dall’azione, ma è anche una esperienza riflessiva. Nell’esperienza riflessiva l’assistente sociale subisce le conseguenze delle sue azioni. Cioè la sua ricerca e il suo impegno per risolvere le situazioni problematiche è un processo del subire, del patire e del sopportare qualcosa. L’assistente sociale quando agisce sulla situazione fa qualcosa con essa; poi ne soffre le conseguenze. Egli fa qualcosa alla persona, e questa fa qualcosa su di lui. Ossia l’assistente sociale impara dall’esperienza quando è in grado di collegare le due fasi del fare e del sottostare. Non è esperienza il fatto che l’assistente sociale agisce sulla situazione problematica; l’esperienza nasce quando il movimento è congiunto con il dolore che ne consegue. Cioè significa che il vissuto esperienziale dell’assistente sociale non è un semplice fare, ma anche un patire. Bisogna aggiungere che tutto ciò è possibile in quanto l’inchiesta sociale, che è l’azione trasformatrice di una situazione problematica, è per sua natura legata al linguaggio. Perché il linguaggio non è un semplice sistema di suoni o di segni, ma è un mezzo di comunicazione, è lo strumento mediante il quale l’individuo viene a partecipare alle idee e ai sentimenti degli altri. Il linguaggio è anzitutto il mezzo di relazione sociale, il mezzo di espressione e comprensione. Ne consegue che per l’assistente sociale la comunicazione è uno strumento del rapporto sociale avente la finalità di aiutare la crescita, lo sviluppo e l’autonomia della persona. E tale rapporto di aiuto non assume «una forma di carità che impoverisce chi la riceve», ma è «semplicemente un aiuto a liberare le capacità ed a promuovere l’impulso di chi è aiutato».[16] Da qui si deduce che l’inchiesta dell’assistente sociale non è né una procedura logicamente preordinata e standardizzata né «un alibi al non fare, invece che un aiuto».[17] L’inchiesta sociale è un’idea all’opera, l’inizio del processo di aiuto, la presa incarico del caso problematico e conflittuale. Nel corso della relazione di aiuto, nascente dall’empatia, (vedere, sentire, capire)[18] cambia il modo di essere e di pensare dell’operatore e della persona. L’assistente sociale non viene più percepito come un estraneo di fiducia,[19] ma come un amico che entra nel mondo della persona con discrezione, con tatto e con viva preoccupazione.
In altri termini, l’inchiesta sociale è uno dei capitoli del servizio sociale etico in quanto essa è basata sull’imperativo della comprensione non tanto dell’uomo in libertà, ma quanto dell’uomo in difficoltà. Tutte queste considerazioni ci portano a dire che l’inchiesta dell’assistente sociale non si conclude con un giudizio di condanna o di assoluzione, come fa il giudice quando pronuncia una sentenza, ma con un giudizio pratico di umana comprensione che si ispira al socratico nemo sua sponte peccat (nessuno sbaglia per il gusto di sbagliare) e che è simile all’evangelico nolite judicare.[20]
[1] Damasio A. R., L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano, 2008.
[2] Croce B., Ultimi saggi, Laterza, Bari, 1935.
[3] Croce B., Cultura e vita morale, Laterza, Bari, 1955.
[4] Vygotskij L. S., Pensiero e linguaggio, Laterza, Bari, 2008.
[5] Bruner J., La mente a più dimensioni, Laterza, Bari, 2003.
[6] Heidegger M., Che cosa significa pensare?, Sugarco Edizioni, Varese, 1996.
[7] Calogero G., Logica, Einaudi, Torino, 1966.
[8] Dewey J., Rifare la filosofia, Donzelli Editore, Roma, 1998.
[9] Dewey J., Come pensiamo, La Nuova Italia, Firenze, 1967.
[10] Ibidem.
[11] Dewey J., La logica sperimentale. Teoria naturalistica della conoscenza e del pensiero, Quodlibet, Macerata, 2008.
[12] De Ambrogio U., Bertotti T., Merlini F., L’assistente sociale e la valutazione. Esperienze e strumenti, Carocci Faber, Roma, 2007. Su tale argomento si possono consultare le seguenti opere: Dizionario di servizio sociale (diretto da Maria Dal Pra Ponticelli), Carocci Faber, Roma, 2005; La valutazione nel servizio sociale. Proposte e strumenti per la qualità dell’intervento professionale (a cura di Annamaria Campanini), Carocci Faber, Roma, 2006.
[13] Ibidem.
[14] Breda R., Coppola C., Sabattini A., Il Servizio sociale nel sistema penitenziario, G. Giappichelli Editore, Torino, 1989. Su tale argomento si può consultare la seguente opera: Dizionario di servizio sociale…, Op. cit.
[15] Dewey J., La ricerca della certezza, La Nuova Italia, Firenze, 1966.
[16] Dewey J., Il mio credo pedagogico, La nuova Italia, Firenze, 1963.
[17] Laffi C. (a cura di), Le pratiche dell’inchiesta sociale, Edizioni dell’Asino, Roma, 2009.
[18] Boella L., Neuroetica. La morale prima della morale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008.
[19] Pittaluga M., L’estraneo di fiducia. Competenze e responsabilità dell’assistente sociale, Carocci Editore, Roma, 2000.
[20] Calogero G., Quaderno laico, Laterza, Bari, 1967.