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Riflessioni sui fatti di Rosarno

Quanti sono gli immigrati che lavorano nelle campagne italiane?
Nel nostro Paese tutti gli occupati in agricoltura sono 923 mila. Erano un milione e 120 mila nel 2000. Nello stesso anno, gli immigrati che lavoravano nel settore agricolo si contavano in 102 mila unità. Erano 23 mila dieci anni prima e oggi raggiungono le 172 mila unità. 
In Calabria erano meno di un migliaio 20 anni fa e sono arrivati a 9 mila. In Puglia da 6 mila sono passati nel ventennio a circa 26 mila. Gli incrementi più consistenti si sono verificati nelle regioni del Centro e del Nord, dove si sono decuplicati. Oggi in Lombardia sono 17 mila, in Veneto 19 mila, nel Trentino 15 mila, in Emilia Romagna 18 mila, in Toscana 10 mila, nel Lazio 6 mila.
Ma questi sono i risultati di un’indagine dell’INEA (2009) che ha potuto elaborare solo dati ufficiali. Non sono considerati i tanti immigrati irregolari che spesso vengono sfruttati soprattutto nelle regioni del Sud, dove arrivano con la speranza di racimolare un po’ di denaro raccogliendo pomodori, pulendo le vigne dalle erbacce, strappando frutti alla terra, e si ritrovano invece in condizioni da incubo, alla mercè di caporali, intenti a regolare e controllare non solo il lavoro ma la vita dei nuovi schiavi. Questi, infatti, negli ultimi anni spesso sono scomparsi nel nulla o sono morti in circostanze misteriose. I giornali ne hanno parlato nella cronaca nera ma il giorno dopo si è voltato pagina.

Nel Rapporto di Medici Senza Frontiere (2007) si dice senza mezzi termini che ad avallare siffatta situazione di profonda illegalità e ingiustizia sociale troviamo “un atteggiamento ambiguo o ipocrita del sistema istituzionale italiano nei confronti dell’immigrazione irregolare. Da una parte si registrano misure di contenimento del fenomeno migratorio con politiche dal pugno di ferro tese a combattere la clandestinità a difesa della legalità. Dall’altra le stesse istituzioni nazionali e locali si tappano occhi, orecchie e bocche dinanzi al massiccio sfruttamento di stranieri nelle produzioni agricole del Meridione perché necessari al sostentamento delle economie locali. L’utilizzo di forza lavoro a basso costo, il reclutamento in nero, la negazione di condizioni di vita decenti, il mancato accesso alle cure mediche sono aspetti ben noti e tollerati. I sindaci, le forze di Stato, gli ispettorati del lavoro, le associazioni di categoria e di tutela, i ministeri: tutti sanno e tutti tacciono”. E’ una denuncia che proviene da chi frequenta quei luoghi e cerca in solitudine di bagnare le labbra assetate di quei poveri cristi.

Nelle pianure meridionali, soprattutto polacchi, romeni, bulgari, e non più soltanto africani, hanno preso il posto dei vecchi contadini. E caporali spesso stranieri, al servizio dei proprietari italiani, si sono sostituiti ai vecchi caporali, dando vita alla più grande rivoluzione antropologica del Mezzogiorno rurale negli ultimi vent’anni.
I nuovi braccianti non sono più le donne e gli uomini dei paesi dell’interno che, privi di qualsiasi altra prospettiva, partivano d’estate ogni mattina coi pulmini verso le aree costiere, ma sono giovani maschi appena giunti in Italia, disposti a svolgere qualsiasi mansione pur di guadagnare un po’ di soldi per poi cercare un impiego più stabile in altri settori e in altre regioni europee. 
E i nuovi caporali non sono i semplici intermediari che ci eravamo abituati a vedere nelle pianure meridionali al tempo di raccogliere i prodotti dalle piante, ma sono diventati – col tacito accordo dei proprietari dei terreni – gli asettici gestori di un “campo di lavoro”, dove i diritti minimi e ogni forma di ragionevolezza sono soppressi e i corpi delle persone sono ridotte a”nuda vita” da afferrare, manipolare, violentare, sopprimere.
Riempiendosi di questi “campi” fuori dalla legge, le campagne meridionali non sono regredite nell’Italia contadina di una volta, come potrebbe apparire ad un osservatore frettoloso, ma sono state catapultate nella postmodernità più cruenta, verso un grado di sfruttamento di quella “nuda vita” quasi totalitario, che gli stessi caporali vissuti ai tempi di Di Vittorio avrebbero faticato a ideare.

Gli atti di efferata aggressività, compiuti da alcuni anni a questa parte come uno stillicidio continuo da un caporalato siffatto, sono sfociati nella guerriglia che abbiamo visto svolgersi a Rosarno. Un’autentica jacquerie, una ribellione odiosa ma inevitabile quando la schiavitù diventa intollerabile. E come ci ha spiegato Antonio Cisterna, sostituto procuratore Antimafia, “quando la gente si è sentita aggredita, si è rivolta ai mafiosi che sono stati costretti ad intervenire per non perdere la faccia”. Sicché, alcune squadracce di giovani caporali sono stati inviati per incutere terrore.

Ma la jacquerie potrebbe diffondersi in altre aree del Mezzogiorno perché vicende come quella calabrese sono, in realtà, sedimenti di storia. Si tratta di una violenza irrisolta che ritorna ad esplodere in forme marcatamente diverse dal passato ma che trova linfa in comuni radici. E’ un’onda lunga che riaffiora. E siccome noi tutti – come ammonisce Alessandro Leogrande nel suo libro-inchiesta “Uomini e caporali” (2008) – chi per un verso e chi per un altro, veniamo da quella storia, conviene che insieme dipaniamo questi fili invisibili che portano alle matasse aggrovigliate del passato.
Nei primi anni Venti e alla fine degli anni Quaranta, gli agricoltori aggredivano di persona o facevano massacrare braccianti e contadini senza terra spinti dal timore di perdere i propri possedimenti. Tornando dal fronte affamati di un pezzo di terra dove ricominciare una vita degna di essere vissuta, i cafoni costituivano agli occhi di tanti proprietari terrieri, o di massari e fittavoli che si ingegnavano a diventarlo, una minaccia ineluttabile per la sicurezza dei loro beni. E le frequenti occupazioni di terre di proprietà privata, spesso condotte in forme spontanee e anarcoidi fuori dal controllo dei partiti di sinistra e dei sindacati, venivano percepite come prepotenze ingiustificate e finivano per alimentare odio e rancore. 
Si sono così ulteriormente forgiate relazioni sociali che si manifestano solo con la violenza e l’aggressività specie nei periodi in cui le insicurezze si allargano a macchia d’olio.

Forse non è la miseria il principale retaggio del passato, ma la disumanità delle relazioni e la bestialità della sopraffazione. E’ la violenza quando non riesce ad essere contenuta da comportamenti improntati ai valori della reciprocità e della gratuità, che pure affondano le proprie radici nel mondo rurale. 
E’ per questo che, nelle fasi più acute dei conflitti sociali del secolo scorso, quando la violenza non ha trovato canali di sbocco nella costruzione di organizzazioni sociali affidabili e di processi politici volti ad incivilire le contese, essa ha lasciato spazio ad involuzioni autoritarie. Quando viceversa, come nel secondo Dopoguerra, la violenza diffusa nelle campagne è stata incanalata dai partiti di massa nelle lotte per la democrazia, essa ha lasciato il campo al rigenerarsi di quei valori di mutuo aiuto e di solidarietà del mondo contadino che hanno potuto permeare le relazioni sociali nei decenni successivi.

Oggi tutto questo pare essere scomparso di nuovo. E nell’acuirsi dei conflitti sociali di un’Italia multietnica e multiculturale, nelle campagne meridionali non solo sono venute a mancare le lotte ma brillano per la loro assenza i partiti e le organizzazioni sociali. E vanno via i giovani, alcuni perché non trovano opportunità di impiego in dinamiche economiche sganciate dalle risorse territoriali, altri perché rinunciano ad avviare nuovi percorsi. E tutto è lasciato al degrado con l’arrivo di nuovi “cafoni”, nuovi “bravi” e nuovi signori feudali che stabiliscono la posta in gioco in territori ormai privi di comunità.

Forse solo un processo di ricomposizione dei legami comunitari nelle campagne, che veda protagoniste leve di giovani autoctoni e di giovani stranieri in nuove attività economiche legate all’agricoltura di servizi e alle reti relazionali in grado di ritessere le trame sociali di mutuo aiuto e di gratuità, potrebbe permettere al nostro Mezzogiorno di affrancarsi dagli atavici venti di violenza che soffiano impetuosi nelle sue lande e di produrre un’innovazione che si innesti sulle radici migliori della tradizione. 
Tale processo non si avvia spontaneamente, ma solo se nascono nuovi movimenti, nuovi partiti e nuove organizzazioni sociali che si assumono il ruolo di promuoverlo.
E' per questo che, dopo i fatti di Rosarno, dobbiamo rimettere al centro dell'iniziativa politica e sociale il Mezzogiorno e i giovani, le due priorità che ci ha indicato Giorgio Napolitano la sera di S. Silvestro. Aggiungendo una terza priorità che il presidente ha tralasciato: l’agricoltura. Su questi tre temi prioritari dobbiamo elaborare obiettivi concreti su cui costruire movimenti che durino, progetti che innestino percorsi reali di sviluppo e di cambiamento.