Incuria e Maltrattamento nelle residenze per anziani: Meglio prevenire per curare
di Patrizia Taccani
La salute e la qualità di vita degli anziani sono sempre più minacciate da forme di maltrattamento e abuso: ancora una volta l’OMS lancia un allarme sulla questione, ancora una volta pur rilevando dati crescenti del fenomeno parla di numeri sottostimati, richiamando la necessità di ulteriori indagini nazionali, ma soprattutto di sforzi nel campo della prevenzione. L’attenzione va data a ogni “azione singola, o ripetuta, o una mancanza di un’azione appropriata, che avviene all’interno di qualsiasi relazione in cui si sviluppa un’aspettativa di fiducia e che causa danno o dolore alla persona anziana.” E una qualche ragione ci sarà se a partire dal 2006 è stata istituita, sempre dall’OMS, la “Giornata contro la violenza all’anziano”: il 15 giugno. Una data che avrebbe lo scopo di sensibilizzare non solo i singoli ma anche le comunità dove troviamo radicate forme di ageism, e faticano a scomparire barriere fisiche e sociali nei confronti dei vecchi.
In questo contributo la riflessione è circoscritta al contesto organizzativo delle strutture socioassistenziali e sociosanitarie che ospitano persone anziane con problemi di scarsa o inesistente autonomia e alle possibili forme di prevenzione di comportamenti degli operatori che vadano a lederne identità, dignità, salute fisica e psichica.
Quando prevenire è meglio che curare: la scelta del personale
Un breve articolo comparso su “Prospettive Assistenziali” all’inizio di quest’anno esordisce ricordando quanto la qualità dei “prodotti” di qualsivoglia azienda/organizzazione dipenda in larga misura dalla professionalità e dalla adeguatezza numerica delle persone che vi operano. E non si potrebbe non essere d’accordo. Si pensi, inoltre, quanto la necessità di un’organizzazione di potersi avvalere di adeguate professionalità si accompagni a quella di poter contare su lavoratori che presentino specifiche “caratteristiche” che li rendano adatti a svolgere il ruolo ricoperto. Se questo vale in generale, come non pensare alla loro importanza quando il lavoro non abbia come fine la produzione di un oggetto, ma la risposta a bisogni, materiali e immateriali, veicolata comunque lungo l’asse di una relazione interpersonale? Esattamente come succede nel prendersi cura, nel curare, nell’assistere. Tali caratteristiche sono un bagaglio importante e prezioso per gli stessi professionisti della cura. Possiamo individuarne alcune: apertura mentale, equilibrio emotivo, senso etico, resilienza alle frustrazioni, empatia, capacità di collaborazione.
Esistono tuttavia storie personali, storie famigliari, eventi critici, contingenze traumatiche passate o recenti che possono, in particolare, aver reso una persona vulnerabile di fronte a situazioni emotivamente stressanti come l’impatto con la malattia, la dipendenza dell’altro, la morte. E ancora, ci sono persone che, proprio a seguito di quei condizionamenti, anche lontani nel tempo, si trovano compromesse sul piano dell’equilibrio psichico, emotivo, relazionale. È qui che entra in gioco il prevenire. Il servizio, la struttura residenziale deve affrontare il problema della scelta del personale attrezzandosi per attuare una modalità di selezione che eviti l’inserimento di persone con disturbi di personalità e di funzionamento relazionale, garantendo a tutti coloro che si propongono per un’assunzione, sia una rigorosa scientificità nell’approccio valutativo, sia la più totale riservatezza dei risultati. Su questo punto nell’articolo poco sopra citato si suggerisce che una prassi potrebbe essere quella di “individuare centri scientificamente riconosciuti validi, scelti di comune accordo dagli Enti e dai Sindacati dei lavoratori (…) incaricati di rilasciare una dichiarazione attestante che l’operatore è adeguato per le caratteristiche della sua personalità e per la sua professionalità, a svolgere determinate attività.” È questa una proposta che va discussa e valutata, così come altre possono essere studiate. Cercare in tutti i modi che “nel posto giusto acceda la persona giusta”, così come evitare il contrario, significa fare un buon servizio a tutti i soggetti: fruitori del servizio, sistema organizzativo, singolo operatore.
Una attenta e corretta valutazione iniziale non basta
Non possiamo certo pensare che tutti i casi accertati di maltrattamenti, abusi, violenze vere e proprie nei confronti di anziani che vivono in strutture residenziali sarebbero stati evitati se gli operatori divenuti poi “maltrattanti” non fossero stati assunti. Dalle analisi di Erving Goffman e di Franco Basaglia sulle istituzioni totali – termine che sembra perdersi nella notte dei tempi – possiamo conservare oggi quanto ci aiuta a capire come alcuni funzionamenti organizzativi possano generare profondo malessere in chi vi opera. La letteratura è vasta. Quasi tutti gli autori (pur con terminologie diverse legate anche al periodo storico cui fanno riferimento) concordano nell’indicare una serie di variabili corresponsabili di quella particolare situazione di esaurimento emotivo, cognitivo e relazionale riassumibile con il noto termine di burnout. Troviamo indicati: sovraccarico operativo e temporale; mancanza di controllo/autonomia nel proprio lavoro; assenza di un equo compenso; assenza di feedback; scarse o assenti forme di sostegno (ad esempio supervisione, formazione, supporto individuale); inadeguatezza delle risorse strumentali e di contesto (ad esempio lavoro in équipe insufficiente o addirittura assente); ostacoli al senso di appartenenza (ad esempio sistema non premiante e non imparziale); clima costantemente conflittuale; norme organizzative in contrasto con i valori personali; oggi, più che nel passato, precarietà del posto di lavoro. Per i responsabili di un servizio rivolto alle persone più fragili, quando non gravemente malate, e quindi più incapaci di reagire, difendersi, autotutelarsi, è fondamentale riconoscere e analizzare fattori di rischio come quelli indicati per porre in atto strategie riparative e di cambiamento. Le ricadute di un prolungato stress organizzativo sul lavoratore, infatti, sono molto pesanti. L’operatore che incorra nella sindrome di burnout va incontro a perdita di attenzione e di concentrazione, percepisce un crescente senso di estraneità, di disinteresse per il lavoro, le sue capacità empatiche si assottigliano sino a poter scomparire: anche su questo punto letteratura e dati di ricerca non mancano. All’esaurimento psichico ed emotivo non raramente si accompagnano vere e proprie sintomatologie somatiche, campanelli d’allarmi che tuttavia il più delle volte vengono tacitati solo farmacologicamente. Non stupisce dunque che su questo terreno, reso arido e improduttivo, compaiano e crescano forme di incuria, di maltrattamento psicologico, di aggressività fisiche e verbali nei confronti degli anziani ricoverati. L’installazione delle telecamere può, a questo punto, testimoniarne la presenza, ma ben altro occorre per restituire all’operatore la sua competenza al prendersi cura. Occorre che i responsabili di una struttura oltre a rimuovere gli ostacoli più disfunzionali e nocivi al benessere degli operatori, riassestino le condizioni di lavoro in modo tale che ciascuno abbia la possibilità da un lato di percepire nuovamente la valorizzazione della propria operatività, dall’altro, con sforzo anche personale, quella di invertire la rotta e ritrovarne il senso e il valore, per sé e per le persone cui è rivolta. In una residenza per anziani non autosufficienti il ritorno nell’operatore della capacità di fornire “buone cure” andrà ben presto a riverberarsi sia sulla vita di chi di queste cure è destinatario, sia su quella dell’organizzazione stessa.
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