Periferie e cittadinanza inclusiva
F. Ferrarotti
5/2007 n.s
La cittadinanza inclusiva
Emerge una nuova idea di città e di cittadinanza. Perde consistenza la contrapposizione città-campagna. Centro e periferia non si fronteggiano più. Non si dà più città e anti-città. La funzione delle periferie è fondamentale per il centro storico. Diverse a seconda della natura delle società globali cui appartengono, le periferie hanno in comune una caratteristica: l’esclusione sociale.
Si parla delle periferie del mondo come se fossero tutte uguali. Non è così. La variabilità storica pesa anche sulle periferie. Le vengo studiando da più di mezzo secolo. I gruppi dirigenti tendono a stemperare i problemi in formule che alla fine risultano indebitamente generali ed equivoche.
Le periferie restano come sogni all’alba, trascurabili problemi di funzionamento dei grandi aggregati urbani, ma sono sogni che restano, più reali della realtà. Dobbiamo un modicum di riconoscenza ai recenti incendi nella periferia parigina. Sembra un paradosso, ma è grazie a quei fuochi e a quelle notti di guerriglia urbana se la periferia è tornata all’ordine del giorno. Le periferie, però, non sono tutte uguali. Non ho studiato le periferie solo sui libri o sugli atlanti geografici. Sono andato sul posto. Le ho descritte e le ho fotografate. Le favelas di Rio de Janeiro non hanno nulla in comune con quello che era Harlem a New York vent’anni fa e quello che è oggi il Bronx. Richiamano piuttosto le barriadas di Lima, Perù, e almeno in parte anche le villamiserias di Buenos Aires e le poblaciones di Santiago del Cile, ma sono radicalmente diverse dalle banlieu di Parigi, dai ghetti di Londra o di Francoforte, dalle periferie di Roma, Torino e Milano.
Parigi (inverno 2005-2006) ci ha dato una scossa. Come già nel maggio del 1968, all’inizio della contestazione studentesca e giovanile. Più ancora: come nella grande rivoluzione del 1789. Ma la sua protesta non ci aiuta a capire la miseria di Bangkok e ancora meno quella di Malabar Hill a Bombay. Un primo punto va fissato con chiarezza: le periferie dei grandi aggregati urbani sono legate, benché radicalmente tagliate fuori, alla loro società globale, ne condividono gli orientamenti profondi.
Distinguo in proposito due grandi tipi di società: quelle tradizionali, che chiamerei società dell’accettazione, in cui la povertà e l’indigenza cronica sono accettate come fatti di natura immodificabili, e le società industrializzate dinamiche, in cui il processo di innovazione è esperienza quotidiana e chi non tiene il passo ed è lasciato indietro viene respinto ai margini, diventa irrilevante, non è più persona ma rudere, braccia da lavoro, “macchina animata” come ritenevano Platone e Aristotele.
Le periferie diventano problema solo nel secondo tipo di società. Pur diverse come sono, che cosa hanno in comune? Il fatto, quotidianamente confermato, dell’esclusione sociale. Sono luoghi di non appartenenza. Sono nella società, ma ne sono nello stesso tempo fuori, nel deserto culturale e civile, nella terra di nessuno in cui si è necessariamente cittadini di serie B. Per capire la rivolta della periferia, a Londra come a Parigi, è allora indispensabile una ricerca longitudinale. Non bastano le istantanee. Occorre catturare e capire in profondità il moto evolutivo dei processi di immigrazione, la qualità degli abitanti delle periferie, le loro aspettative di vita, i loro bisogni non di pura sussistenza materiale ma anche di auto-realizzazione e di autostima.
Un mondo in movimento
Sta forse incominciando un’altra storia. Non ci sono più immigrati ed emigranti. Siamo tutti migranti. Viviamo in un mondo in movimento; i mezzi di comunicazione di massa in tempo reale, la comunicazione elettronicamente assistita hanno ristretto il pianeta. Ma le categorie del giudizio culturale e civile segnano il passo, sono in ritardo sugli sviluppi dei processi vitali. Questo ritardo gronda lacrime e sangue. La mediocrità della leadership politica genera mostri.
Si danno, anche in Europa, periferie diverse, meno drammatiche. Da molti anni studio Roma, analizzo le sue periferie. Nel 1970, trentasette anni fa, pubblicavo presso l’Editore Laterza un libro intitolato Roma da capitale a periferia. Era l’anno del centenario di Roma capitale. Il mio libro era un’analisi scientifica, ma voleva anche essere, forse inconsapevolmente o surrettiziamente, un gesto di provocazione dissacratoria.
Le cose sono cambiate. Sono tornato sui miei passi. Roma è oggi una periferia che cerca, faticosamente, di diventare capitale. Non ci sono state rivolte. Le occupazioni di case e di chiese (per esempio, San Policarpo all’Acquedotto Felice) non ci sono più, non si sono tradotte in saccheggi e incendi su vasta scala. Perché? Come mai? Perché la periferia romana è cambiata: da frangia dolente, abitata da proletari, sottoproletari e dal tipo inedito all’epoca individuato, ossia dal “proletariato intermittente”, da dormitori per persone disperate che erano state costrette a scegliere l’espediente come mezzo normale di sussistenza, la periferia romana, se non tutta per gran parte, appare come una zona urbana abitata da un ceto medio-medio e medio-basso, con villette, magari abusive, e condomini con terrazze e balconi fioriti, a volte con ringhiere in legno pregiato, tenuto a dovere e professionalmente riverniciato come uno chalet svizzero. Le baracche, i borghetti, le baraccopoli che io studiavo trentacinque-quaranta anni fa non ci sono più. Si sa che le borgate, quelle ufficiali o delle “case minime”, erano nate all’epoca del fascismo quando si decisero i dissennati sventramenti per aprire la Via dell’Impero o dei Fori Imperiali e la Via della Conciliazione.
Oggi il Quarticciolo, la Borgata Alessandrina, l’Acquedotto Felice, la stessa Magliana, che è pur sempre sotto il livello del Tevere, Valle Aurelia, detta anche, forse per via della vecchia Fornace Veschi, ma non solo per questo, la Valle dell’Inferno, sono profondamente mutati. Nel linguaggio eufemistico della burocrazia capitolina si chiamano “quadranti urbani privi di funzioni pregiate”. Sarà così. Saranno certamente privi di funzioni pregiate nel senso che mancano ancora librerie, auditori, magari farmacie, ma non sono certamente privi di popolazione. Qui tocchiamo un problema serio che mette in crisi la vecchia idea di città, che la suddivide in centro e periferia, come dire in città e anti-città. Ai tempi della prima ricerca, tardi anni ’60, ipotizzavo per Roma una popolazione, verso il 2000, di almeno cinque milioni di abitanti.
Previsione abbondantemente errata, dovuta ad una estrapolazione indebita. Oggi la popolazione di Roma, che era allora di tre milioni di abitanti, sfiora a malapena i due milioni e ottocentomila. Di questi duemilioni ottocentomila, ben un terzo, o poco meno, abitano in periferia. Se la periferia si arrestasse, se il suo contributo alla vita cittadina venisse meno, tutta la città si bloccherebbe, sarebbe colpita da paralisi. Sarebbe utile replicare la mia vecchia ricerca degli anni ’60 e comprendere, finalmente, che centro e periferia non si contrappongono, non si negano l’uno contro l’altra, ma vivono in uno stato di simbiosi vitale, sono necessari l’uno all’altra. E’ ciò che le amministrazioni comunali, a partire soprattutto dall’indimenticabile Luigi Petroselli e passando per Francesco Rutelli, fino all’attuale sindaco Walter Veltroni, sembra che abbiano capito. Non esiste un modello Veltroni. Ciò che esiste e che va valorizzato, anche per altre situazioni di disagio sociale in altre aggregazioni urbane, è l’atteggiamento della giunta Veltroni: un atteggiamento che non solo non nega il dialogo, non solo non si riferisce alla popolazione dei “quadranti urbani privi di funzioni pregiate” in termini di “feccia” o di “zizzania degna solo di una risata o di disprezzo”. La giunta Veltroni ha compreso ciò che non è ancora chiaro a molte amministrazioni comunali, anche se è ormai evidente, persino ai politologi, che la democrazia si afferma premendo dal basso, che non è mai un regalo dei vertici sociali o un “prodotto” esportabile con la violenza.