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Istisss – Istituto per gli Studi sui Servizi Sociali – Roma – Istisss – Istituto per gli Studi sui Servizi Sociali – Roma

Etica religiosa e spirito nel welfare state

MEDITERRANEO E OLTRE

Julie Bicocchi

4/2008 n.s

Il welfare, luogo primario della tutela della fruizione dei diritti di cittadinanza, e quindi primo contesto di espletamento delle finalità del servizio sociale, è stato variamente analizzato, scomposto e ricomposto dagli studiosi delle materie storiche, economiche e sociali da metà anni Sessanta ai giorni nostri.
La classificazione della materia è stata – e tutt’ora è – estremamente complessa sin dalle sue origini, e forse proprio a partire da queste.
Per quanto ormai, infatti, si sia quasi tutti concordi nell’individuare nelle assicurazioni sociali obbligatorie della Germania di fine Ottocento l’origine del moderno welfare state[1], persistono talora perplessità persino su questo punto, in relazione all’effettiva titolarità di “diritti” di coloro che si assicuravano[2].
Ad ogni modo, i tentativi di classificazione del welfare che si sono susseguiti negli ultimi trent’anni sono spesso ritornati sulla dicotomia “originaria” tra il modello bismarkiano, e quindi corporativista, e la via beveridgeana, più universalista, a partire dalla quale era possibile delineare una ripartizione ulteriore che prevedeva in linea di massima un gruppo scandinavo o socialdemocratico, un modello liberale (che assimilava la Gran Bretagna agli Stati Uniti) e un modello continentale o corporativo (in cui rientravano i restanti welfare di cui erano noti i dati).
Tuttavia, oltre a ineludibili ragioni storiche, altri fattori politici, economici e sociali hanno contribuito in modo sostanziale a delineare quelli che, per dirla con Ferrera (1993), potremmo chiamare modelli di solidarietà.
All’interno di questi ultimi senza dubbio un ruolo non del tutto secondario è stato giocato dal fattore religioso che, se da un lato non si è espresso ovunque in maniera uniforme (specie nel contesto europeo, di cui ci occupiamo in questa sede), dall’altro laddove ha avuto possibilità più ampie di espressione ha lasciato a suo modo “il segno”, ed è alla ricerca di tali “segni” e continui rimandi di senso che, weberianamente, ci accingiamo a trattare la complessità della materia.
 
 
 
Diversi modelli di solidarietà; ma quanti?
 
Ci sono modelli, come quello di Ferrera (1993), che hanno tentato di andare oltre la sommaria tripartizione di cui sopra. Effettivamente non è facile ricondurre ad uno schema oggettivo una materia in continuo divenire come le politiche sociali, tuttavia, se parlare di liberalismo per la Gran Bretagna era ed è piuttosto aproblematico, attribuire un generico corporativismo a paesi che, al di là della mera vicinanza geografica, presentavano sostanziali differenze interne, continuava a presentare più di un aspetto controverso.
Esping Andersen, in realtà, già nel 1990 con il concetto di demercificazione[3] aveva tentato una razionalizzazione della tripartizione di cui sopra, ma le connotazioni valutative, di chiara matrice marxista, ne rendevano purtroppo meno attendibile l’apparato teorico nel suo complesso.
Gli studi di Ferrera, ricorrendo a diversi parametri [4] , portarono ad altre conclusioni, e cioè due principali modelli, occupazionale e universalistico, ciascuno ulteriormente suddivisibile in due diverse specie: mista e pura. Così se tra gli occupazionali puri rinveniamo ad esempio la Francia, la Germania, l’Austria e il Belgio, il modello occupazionale misto avvicina Italia, Olanda e Svizzera, cioè paesi che in passato sarebbero tranquillamente stati parte, assieme agli altri paesi occupazionali puri, del modello corporativo. I paesi scandinavi mantengono la propria specificità e infatti restano tutti e quattro all’interno dell’universalismo puro mentre, curiosamente, la Gran Bretagna pare perdere come riferimento gli Stati Uniti d’America (incorporati dall’occupazionalismo) per venire associata, in quanto universalista “misto”, a Canada e Nuova Zelanda. Questa teorizzazione però rivela subito a sé stessa le proprie faglie, subito trasformandole in eccezioni, ma la loro distribuzione per così dire “uniforme” all’interno del modello presagirà il superamento dello stesso a breve.
Lo stesso Esping Andersen (1995) dà i segni, forse inconsapevolmente, di quella “crisi” della semplificata tripartizione dei sistemi di welfare europei nel corso di un’indagine sull’ascesa del familismo nel sud Europa. Così come pure Ferrera (1996) tornerà suo malgrado a mettere il dito nella piaga, lamentando la trascuratezza del dibattito scientifico proprio intorno ai welfare sudeuropei.
E lì sta infatti il punto: non ci risulta infatti uno studio precedente a metà degli anni Novanta che includesse, in maniera organica e completa, dati attendibili di Italia, Spagna, Portogallo e Grecia e, laddove tali dati fossero presenti, non ci risulta che riguardassero tutti e quattro gli stati mediterranei contemporaneamente. Potremmo provare a ripercorrere alcuni dei passi su citati, e rilevare per esempio tali “grandi assenti” nella scala degli indici di demercificazione di Esping Andersen, o nei modelli occupazionali e universali di Ferrera: in entrambi i casi, questa “distrazione” comporta un’ulteriore messa in dubbio dei loro costrutti teorici.
In realtà il Latin Rim, cioè la rudimentalità dei welfare sud europei, era già saltata all’occhio di Leibfried nel 1992. Eppure non era stata ancora sufficientemente sistematizzata, forse perché ciascun aspetto delle politiche sociali sud-europee poteva apparire come una sorta di esasperazione degli aspetti notati in altri paesi di impronta bismarkiana, cosa che autorizzava a considerarli, seppur in presenza di dati parziali (se non quasi assenti, come è lungamente avvenuto per la Grecia) paesi con connotazioni corporativiste fortemente accentuate.
In quei paesi che, per prudenza, connoteremo al momento con un semplice appellativo geografico e cioè meridionali, sudeuropei o mediterranei (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia) rileviamo in effetti una decisiva importanza assegnata alle risorse monetarie, soprattutto nel campo pensionistico.
La normativa di settore è fortemente frammentaria, determinando una pletora di regimi quando non di microregimi: le prestazioni di garanzia del reddito, ad esempio, variano a seconda della condizione occupazionale del lavoratore, con schemi distinti a seconda che si lavori nel settore pubblico, in quello privato o che si sia autonomi.
E, caratteristica che non si ritrova nel welfare bismarkiano propriamente detto, formule e gamma delle prestazioni appaiono dualisticamente polarizzate: protezione generosa per chi lavora nei settori centrali dell’economia (e cioè per il lavoro regolare), magri sussidi (e a volte neanche quelli) per chi, per lo più lavoratori irregolari o non “istituzionalizzati”, rappresenta la forza lavoro impiegata nei settori più periferici. Stesso divario troviamo per le pensioni, pensate in funzione dello status posseduto durante la vita lavorativa.
Per il giovane in cerca di prima occupazione non è prevista l’indennità di disoccupazione cui avrebbe diritto negli altri paesi continentali[5] e nordici; problematica è parimenti l’indennità prevista per chi perde il lavoro: sebbene, infatti, le prestazioni previste in quest’ultimo caso siano in linea con la media europea, tale standard rimane spesso teorico, perché pochi sono i lavoratori aventi i requisiti per accedere alle prestazioni di livello più generoso[6]; e ben poco tutelata è, infine, la posizione del genitore solo.
Potremmo allora definire questa tutela fortemente diversificata dei cittadini, riprendendo l’espressione di Ferrera, iper-garantismo selettivo, unicum europeo i cui accesi contrasti interni sono suo malgrado smussati e attenuati dalla famiglia latina, necessario sistema di compensazione sociale di cui le istituzioni per prime danno per scontata l’esistenza (e la resistenza), confermandone ulteriormente l’indispensabilità.
 
 
 
La famiglia latina: un insostituibile complemento al welfare mediterraneo
 
Emblematica è sicuramente la nozione di familismo associata da molti autori al welfare sudeuropeo.
Uno dei primi autori a evidenziarlo fu Esping Andersen (2000) che, nella sua classificazione che solo parzialmente riconosceva le peculiarità mediterranee, lo definì una caratteristica tipica di quel welfare che “fonda la protezione sociale sul maschio percettore di reddito, e attribuisce alla famiglia la responsabilità ultima del benessere dei suoi membri e i principali compiti di cura (principio di sussidiarietà)”[7]. Questo significa che i sistemi di welfare improntati al familismo mantengono la propria impostazione residuale presupponendo famiglie ampie, fortemente integrate e coese al proprio interno: e in effetti il welfare latino tutt’oggi è pensato per intervenire soltanto là dove la famiglia non riesce a far fronte “autonomamente” ai propri bisogni e comunque, qualora tale intervento si riveli necessario, esso consiste per lo più nell’erogazione di sussidi monetari[8].
E’ ai figli che spetta per legge, ad esempio, l’accudimento degli anziani in difficoltà, o è ai genitori che compete il mantenimento dei giovani figli in cerca di prima occupazione (anche se hanno già passato da tempo la maggiore età).
Nei paesi scandinavi la situazione è diversa: il carico di cura che incombe sui familiari è estremamente ridotto e grazie a politiche sociali defamiliste pochissimi giovani disoccupati rimangono con i genitori, pochi sono gli anziani che hanno bisogno di convivere con i figli e, soprattutto, le ore di lavoro non remunerato delle donne sono tra le più basse in Europa.
 In Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, invece, in assenza di servizi per l’infanzia o la vecchiaia a basso costo, è sulla donna, tradizionalmente preposta all’espletamento delle funzioni di cura, che tutt’oggi ricade tale responsabilità: il tempo non remunerato della componente femminile della famiglia è infatti nella maggior parte dei casi l’unica risorsa alternativa possibile[9]. Un esempio in proposito sono le così dette superdonne del caso spagnolo: mogli, madri, nonne che, all’interno del proprio nucleo familiare partecipano ad una maratona ai limiti delle umane capacità per l’accudimento dei figli, degli anziani in difficoltà, la gestione della casa e, non ultimo, della propria – sacrificata – attività lavorativa[10], colmando così lacune a cui lo Stato non saprebbe assolutamente, almeno mantenendo immutato lo stato delle cose, porre rimedio[11].
Tuttavia, anche tralasciando momentaneamente il piano dell’equità tra i generi, resta il paradosso che i regimi familisti sono anche i meno generosi in materia di trasferimenti monetari e forme di sostegno alle famiglie con figli. E anche quest’aspetto si rivela foriero di paradossi e contraddizioni, come i tassi di natalità di Italia e Spagna[12], che risultano essere tra i più bassi in Europa.
 
 
 
Premesse religiose del principio di sussidiarietà
 
A monte della scelta residualista troviamo sicuramente il principio di sussidiarietà, cioè l’idea che lo Stato debba intervenire soltanto qualora le famiglie non riescano a fare fronte alle proprie esigenze da sole.
Risalire alle origini di tale principio, e a tutti i fattori – ve ne furono tanti – che contribuirono a intraprendere tale direzione sarebbe un lavoro estremamente lungo e impegnativo, la cui trattazione non è opportuna in questa sede. Su suggestione weberiana, tuttavia, abbiamo provato a selezionare l’elemento religioso come possibile presupposto – insieme ovviamente ad altri imprescindibili fattori storici, politici, sociali – dell’orientamento prevalente delle politiche sociali dei paesi sudeuropei.
Infatti, come ciclicamente le cronache ci rammentano, non sempre si può implementare una politica sociale trascurando i principi religiosi dei destinatari, qualora la prima e i secondi entrino in conflitto, e proprio questa particolare attenzione potrebbe aver determinato, nel tempo, un particolare carattere interno, spirituale e costante delle politiche mediterranee: l’ipotesi è allora che esistano connessioni e interazioni tra sollecitazioni religiose – specie cattoliche – e alcuni aspetti dei welfare states nazionali, una sorta di “spirito” del welfare state.
E’ dunque alle prime encicliche sociali[13] che, preferendo un paradigma indiziario ad uno di tipo causa effetto – decisamente semplicistico e riduttivo, data la fluidità della materia – ci accingiamo a rivolgere lo sguardo.
 
 
 
L’arduo connubio tra civitas e religio
 
Gli ultimi decenni dell’Ottocento hanno sancito l’inizio della questione sociale.
La Chiesa, dal suo canto, non era nuova a tematiche inerenti il disagio e la povertà, avendo alle spalle oltre mille anni di pratica assistenziale, e di delega – più o meno ufficiale – quasi totale in materia da parte delle più diverse autorità politiche che di volta in volta si sono succedute in Europa; ciononostante è solo a fine XIX secolo che esplicito diventa l’interesse per le problematiche connesse all’equità e questo, come ricorda Spiazzi (1988a), probabilmente per motivazioni di ordine storico, tra le quali troviamo “l’ignoranza che regnava sovrana, essendo la maggior parte del popolo analfabeta, il senso di fatalismo diffuso nella gente anche come effetto di una religiosità male intesa, la fine delle corporazioni che per secoli avevano difeso i diritti dei lavoratori”[14]. Eppure, a ben vedere, sin dall’Immortale Dei (1885) si hanno i primi segni di quello che, specialmente in Italia, si sarebbe tradotto a più riprese in un conflitto giurisdizionale tra Stato e Chiesa; sostenere infatti al contempo che la Chiesa è, sì, indifferente ad ogni forma di regime, ma che comunque l’autorità dello Stato proviene da Dio mediante designazione da parte del popolo sicuramente metteva almeno in parte in discussione l’autorità del nascente Stato Italiano, che da poco aveva visto l’unificazione, e intrapreso l’emblematica presa di posizione verso lo Stato della Chiesa con la breccia di Porta Pia.
La fine dell’Ottocento vide d’altro canto la diffusione dell’ideologia liberale, tra le classi dirigenti, e socialista, presso le masse operaie; entrambe le ideologie erano malviste dai vertici ecclesiastici, che caldamente consigliavano la via della collaborazione tra le classi (e non la contrapposizione tra le stesse) per dirimere le controversie[15] oltre alla difesa della centralità della famiglia. Questo atteggiamento implicò, almeno in un primo tempo, una certa diffidenza verso i sindacati dei lavoratori se di matrice socialista[16], qualora inseguissero la chimera dell’uguaglianza tra le classi: questa, infattinon sarà mai raggiungibile, non in questa terra, almeno.
Come sottolineò, citando l’evangelista Matteo, papa Pecci nel 1890[17], “nessuno può servire due padroni”: in effetti non era facile essere al contempo un bravo cittadino e buon cristiano, avendo il dovere, in virtù della seconda identità, di difendere i valori cattolici in uno Stato che si comportava come se la Chiesa non ci fosse.
A ben vedere la presenza della Chiesa era volentieri tollerata quando si trattava di delegarle gli oneri assistenziali, ma, da quando la legge Crispi ne ridusse le prerogative anche in quei settori, il contrasto con lo Stato liberale, concepito dalla Chiesa come accentratore e burocratico si fece più marcato. E la linea indicata i fedeli è sempre una ritrazione, per quanto possibile, dallo Stato per concentrare non solo le funzioni assistenziali ma anche quelle educative[18] nella famiglia e nelle istituzioni religiose.
Quando nel 1939 la Summi Pontificatus di Papa Pacelli avrebbe nuovamente additato “la separazione dell’autorità civile dalla legge morale e di Dio, con la conseguente pretesa dello Stato di essere il padrone assoluto di ogni singola persona e delle famiglie” come uno tra i grandi mali del tempo, la certezza che la ferita nel cuore cattolico, aggravata dagli imminenti orrori della guerra, non si era rimarginata era cosa di cui non si poteva più solo prendere atto, ma contro cui sarebbe stato opportuno adoperarsi per la costruzione di un ordine veramente pacifico, in cui i diritti di Dio e la legge “naturale” saranno veramente riconosciuti.
Nel settantesimo anniversario della Rerum Novarum Papa Giovanni XXIII sarebbe tornato, con la Mater et Magistra, sui mutamenti sociali degli ultimi quarant’anni, individuando per la Chiesa un nuovo ruolo nel mondo: madre e maestra dei popoli (anche non credenti), appunto, e non più soggetto in competizione per il potere o “magistero avulso dalla vita”. Questa significativa apertura, rivolta innanzitutto ai laici cattolici, non rinnega tuttavia l’importanza di questioni già toccate da Leone XIII, quali il “rapporto tra l’ iniziativa personale e i pubblici poteri in campo economico, la socializzazione, la rimunerazione del lavoro, le strutture produttive in confronto alle esigenze della giustizia, la proprietà privata”, ma, diversamente da quanto accadde per la Rerum Novarum, l’accoglienza dell’enciclica fu pressoché unanime. L’impegno nella vita pubblica per l’immissione in essa dei valori cristiani è sottolineato anche nella Pacem in Terris, che si occupava della questione sociale in un contesto storico politico segnato da gravi e continue tensioni, che richiedevano urgentemente nuove forme di collaborazione con i non cristiani per il perseguimento della pace; un passo coraggioso e rischioso insieme, perché anche in seno al mondo cattolico ci fu chi si sentì giustificato in quelle alleanze o tentativi di alleanze cui probabilmente va fatto risalire il progressivo indebolimento politico e morale del fronte cristiano e la compromissione della credibilità di movimenti e uomini politici.
Papa Roncalli, cui, si dice, fosse stata direttamente l’ispirazione divina a sollecitare la ripresa del Concilio Vaticano lì dove le truppe sabaude l’avevano interrotto, non riuscì purtroppo a vederne gli esiti. Toccò a Paolo VI prendere le redini del Concilio Vaticano II, le cui Gudium et Spes e Dignitatis Humanae, entrambe del 1965 confermavano la direzione intrapresa da una Chiesa ormai missionaria nel mondo e quindi attenta al rapporto con la comunità politica di appartenenza, con la cultura di riferimento, ma sempre evidenziando come “il giusto rapporto tra l’individuo e la società è dato dalla famiglia”[19] e come sia importante restituire alla religione la dignità che le spetta; da ciò non possono che conseguire il principio di sussidiarietà, la cui priorità della famiglia sullo Stato era già stata affermata da Leone XIII, Pio XI e Pio XII, e l’autolimitazione dello Stato, la cui democratica separazione dalla Chiesa eviterà che un’impostazione ideologica da stati totalitari assorba il religioso nello Stato stesso.
Conclusosi il breve interludio di Papa Albino Luciani, è la volta del grande comunicatore Giovanni Paolo II, il cui lungo papato ha visto una grande produzione di documenti sociali tra i quali, per esigenza di brevità, ricordiamo solo l’enciclica Laborem Excersens e la lettera apostolica Mulieris Dignitatem. Il primo documento, del 1981, è di un’incredibile lungimiranza per la capacità del Pontefice di intravedere nelle trasformazioni all’epoca in atto nel mondo del lavoro una progressiva esposizione all’incertezza del lavoratore, e con lui della sua famiglia; il secondo, composto in occasione dell’anno mariano (1988), accompagna la donna nel suo cammino di emancipazione, alla ricerca di un dignitoso inserimento nel mondo sociale, seppur nel rispetto del suo ruolo primario di mediazione, su modello della Madonna. Nell’intervallo tra il primo e il secondo documento, tuttavia, la pubblicazione della Carta della Famiglia (1983) testimonia la fine del lungo percorso per uscire dal conflitto identitario tra l’essere cristiano e l’essere cittadino, e l’inizio di una nuova cittadinanza vissuta, come cristiano, all’insegna di valori – quali la funzione politica e sociale della famiglia, il rispetto a oltranza della vita, la libertà religiosa, il diritto alla casa, e molti altri – che “la società è chiamata a difendere […] dalle violazioni” e a rispettare promuovere “nell’interezza del loro contenuto”.
Dopo ormai un secolo dalla Rerum Novarum, pare che Stato e Chiesa non si contendano più i cittadini – o, a seconda del punto di vista, le anime; ma quello che superficialmente potrebbe essere scambiato per un cambio di strategia, acquisisce una sfumatura diversa se rapportata a un contesto politico–sociale più ampio; non solo, da un lato, l’Italia, da tempo considerato un baluardo del cattolicesimo, aveva colto alla sprovvista l’alto clero con i referendum di metà anni Settanta su aborto e divorzio, ma anche, come ricorda Garelli (2005), “la caduta della Dc (consumatasi agli inizi del decennio scorso) ha reso certamente orfani la Chiesa e i gruppi cattolici di una sponda politica, che pure nel tempo era andata affievolendosi sia per la varietà delle scelte politiche dei credenti, sia per il progressivo allontanamento del partito dai principi ispiratori e dalla sua base elettorale. […] Proprio la crisi del cattolicesimo politico sembra aver dato maggior spazio pubblico alla cultura della solidarietà che è parte integrante della tradizione cristiana. Con il passare degli anni, dunque, l’icona della presenza pubblica della Chiesa e del mondo cattolico ha assunto le forme dell’impegno caritativo e solidale, attorno a cui si è creato un immaginario collettivo che perdura tuttora”. Questo significa che l’interesse cattolico per il sociale resiste ai duri colpi inferti dalla secolarizzazione semplicemente mutando forma, e questa forma, vista la crescente importanza, ad esempio, del privato sociale e del terzo settore in generale, si mantiene il più possibile attuale, senza tuttavia rinnegare il proprio contenuto valoriale originario.
 
 
 
Cattolicesimo e società: è possibile un welfare “religioso”?
 
I valori religiosi, specie cattolici, inerenti la concezione della famiglia, dello Stato, e i rapporti tra la prima e il secondo, paiono ricomparire in molti aspetti dei paesi sudeuropei (e a volte non solo in quelli), con ripercussioni sulle relative politiche sociali.
Innanzitutto, la già incontrata impostazione familista. In particolare, la divisione dei ruoli all’interno della famiglia tra male-breadwinner e female-home maker, data per scontata in molte politiche sociali sud europee e continentali, merita attenzione in funzione non solo dei rapporti tra i generi, ma anche della struttura di particolari politiche del lavoro, per la famiglia e della particolare concezione della cittadinanza nel Mediterraneo europeo.
E’ subito evidente che, per quanto la Chiesa abbia accettato che la donna, nonostante la sua “natura” di moglie e madre (laddove non aspiri a prendere i voti), accedesse al lavoro retribuito extradomestico, la qualità dei diritti e doveri di cui è titolare rimangono in parte diversi da quelli dell’uomo. La donna ha da un lato raggiunto la parità di dignità, di trattamento sul lavoro e nel campo dell’istruzione, tuttavia ciò non autorizza a subordinare il mondo domestico a quello extradomestico; nella Familiaris Consortio si chiede “instancabilmente che sia da tutti riconosciuto e onorato nel suo valore insostituibile il lavoro della donna in casa”, si accenna alla necessità di strumenti che aiutino a conciliare lavoro e famiglia ma mai alla possibilità di una condivisione, da parte dell’uomo degli oneri domestici, e la conclusione sembra: “donna, lavora pure quanto vuoi, ma ricordati che la responsabilità della famiglia resta sulle tue spalle”[20].
Esping-Andersen (1995) sottolinea come “l’influenza delle dottrine di stampo cattolico in materia sociale rimane un ostacolo all’offerta pubblica di servizi, soprattutto quelli legati all’assistenza sociale e alla riproduzione sociale della famiglia. Una conseguenza di ciò è che il modello continentale si configura, in netto contrasto rispetto ai paesi nordici, snello quanto a servizi ma pesante quanto a trasferimenti. […] La carenza di servizi sociali è in contraddizione con la crescente aspirazione da parte delle donne di avere un impiego e, dall’altro, contribuisce a spiegare la stagnazione complessiva dell’occupazione in Europa. Poiché, in ogni caso, le donne manifestano un desiderio crescente di lavorare, e dato che i livelli elevati delle retribuzioni rendono proibitivi i servizi di cura privati, il sistema impone un rigido trade-off tra carriere femminili e maternità”[21]. A questa “repressione del potenziale lavorativo femminile” [22] va quindi aggiunto il “principio di un reddito familiare” il quale “venne esteso ai trasferimenti sociali, come già il principio per cui i benefici sociali dovrebbero rispecchiare gli abituali differenziali di status”.
Il reddito familiare è a sua volta una conseguenza del male-breadwinner. Il lavoro dell’individuo serve a mantenere l’intero nucleo familiare, moglie inclusa: tanto più lo stipendio del marito sarà adeguato al mantenimento dignitoso della famiglia (cosa a cui può benissimo mirare un sindacato cattolico), tanto meno si daranno incentivi alla donna per sottrarsi ai doveri di cura ed educazione dei figli. A questo si aggiunga il fatto che l’apertura alla questione operaia, iniziata con la Rerum Novarum, era un tentativo di sollecitare la formazione di “associazioni miste di operai e padroni” e non un riconoscimento della legittimità dell’intervento dello Stato erga omnes .
Anche dal punto di vista dell’educazione la definizione dei propri “spazi” è cosa da non passare in secondo piano: la Chiesa infatti riconosce e accetta l’ipotesi che la formazione delle giovani menti possa avvenire anche in contesti esterni alla famiglia, a patto però che non si mettano in discussione il primato di quest’ultima e gli insegnamenti propri del cattolicesimo. Per “educazione”, quindi, si intende l’insegnamento dei principi e dei valori cristiani, per formare e rafforzare un’identità religiosa, insegnamento che deve essere sentito come prioritario, dal fedele, rispetto alle altre forme di educazione, a prescindere da chi le proponga, se non si confanno alla morale cattolica.
Quest’ultimo passaggio è però estremamente interessante. L’istruzione, che molti di noi oggi danno per scontata, è sempre stata fondamentale per vivere appieno non solo la propria esperienza di credente, ma anche la propria coscienza di cittadino; per discernere non solo il bene dal male, ma anche l’opportuno dallo sconveniente. Permette di acquisire una capacità lavorativa specializzata. È precondizione necessaria per la mobilità sociale e, conseguenza importantissima, per l’indipendenza economica. Quindi una diversa concezione dell’educazione può avere diversi effetti, anche nel lungo periodo, sulla popolazione di riferimento.
Se facessimo un confronto con uno stato europeo ad assoluta maggioranza non cattolica, ad esempio la Svezia, scopriremmo che “erano i genitori che dovevano insegnare ai bambini a leggere abbastanza bene così che potessero superare gli esami pubblici annuali del villaggio sulla lettura della Bibbia, dal momento che una legge del 1686 stabiliva che chi non superava gli esami veniva ad essere escluso sia dalla comunione che dal matrimonio. Così troviamo che la velocità con cui gli Stati intervennero per controllare od amministrare direttamente l’istruzione dipese principalmente dal fatto di essere protestanti o cattolici, e di considerare come prioritaria la creazione di for