Il sostegno alle famiglie che curano nell’ottica della sussidiarietà
Elisa Noci
1/2010 n.s
La famiglia nel sistema di welfare italiano
Notoriamente, una delle caratteristiche distintive del sistema di welfare italiano è la posizione centrale assegnata alla famiglia come attore chiamato a redistribuire risorse (economiche, relazionali, di cura) ai propri membri. Nell’assetto che si è andato definendo dal secondo dopoguerra agli anni ’90 l’intervento pubblico è stato concepito come residuale, erogato solo nei casi di insufficienza o esaurimento delle possibilità familiari. Le politiche sociali sono state disegnate assumendo come dato di partenza la tenuta di reti familiari estese e organizzate secondo una rigida divisione dei compiti in base al genere, solitamente in grado di garantire in modo autonomo sia il sostegno economico dei membri più fragili, sia le attività di cura nei confronti dei soggetti deboli (minori, disabili, anziani non autosufficienti). Come conseguenza di tale assetto, il rapporto tra famiglia e servizi pubblici ha assunto la configurazione che con un’efficace espressione Chiara Saraceno ha definito familismo ambivalente[1]; ovvero, si è assistito a retoriche e insistite affermazioni di principio sulla rilevanza della famiglia alle quali ha fatto seguito una delega di compiti senza alcun supporto sostanziale.
Nonostante i numerosi richiami alla necessità di intervenire su tale contraddizione, queste criticità appaiono più che mai attuali. Negli interventi normativi degli ultimi anni, a partire dalla legge 328/2000, il ruolo centrale della famiglia è stato costantemente riaffermato, ma continuano a latitare indicazioni relative a concrete forme di sostegno. A titolo esemplificativo basti considerare il recente Libro Bianco sul futuro del modello sociale[2]. La famiglia è annoverata tra i “valori fondamentali” a partire dai quali devono essere costruite le nuove politiche sociali. Tra i compiti che tali politiche dovranno assolvere sono evidenziati il sostegno alla maternità e alla famiglia, che viene costantemente richiamata come soggetto centrale nel raggiungimento degli ulteriori obiettivi del modello, come la cura degli anziani non autosufficienti e dei disabili. Il riferimento alla famiglia, peraltro, è del tutto coerente con l’impostazione valoriale della coalizione attualmente al governo come espressa anche nelle precedenti legislature. Già nel precedente Libro Bianco sul welfare del febbraio 2003 il sostegno alle responsabilità familiari veniva enfatizzato e caratterizzato non come una politica di settore «quanto piuttosto il risultato di una molteplicità di interventi che ne riconoscono il ruolo di vero e proprio attore di sistema[3]». Tuttavia, come è stato osservato, sia nel documento del 2003 sia in quello attuale gli obiettivi posti non risultano accompagnati da indicazioni operative che possano facilitarne il raggiungimento[4].
Il rapporto tra attori istituzionali e famiglia nell’ottica della sussidiarietà
Il principio di sussidiarietà[5] ha assunto grande rilevanza nel nostro paese in seguito a due eventi. In primo luogo è stato assunto dal Trattato di Maastricht come elemento fondante dell’architettura istituzionale dell’Unione Europea. In seguito, la riforma del Titolo V ha inserito nella Costituzione italiana un riferimento esplicito sia alla sussidiarietà verticale come criterio di ripartizione tra i diversi livelli di governo, sia alla sussidiarietà orizzontale intesa come principio di regolazione dei rapporti tra amministrazione pubblica e società civile in tutte le sue espressioni. Questo significa che il principio di sussidiarietà orizzontale è divenuto un riferimento fondamentale anche nella definizione delle relazioni e delle reciproche responsabilità tra attore pubblico e famiglia.
Nella sua accezione compiuta, il principio di sussidiarietà possiede tre diverse dimensioni[6]:
1. dimensione protettiva: un’articolazione di ordine superiore deve consentire alle articolazioni sottostanti di regolarsi e gestirsi in modo autonomo e secondo i propri codici;
2. dimensione di responsabilizzazione degli attori: l’articolazione di ordine superiore è tenuta a respingere i compiti che le articolazioni sottostanti tentano di delegare pur essendo in grado di assolverli;
3. dimensione promozionale: l’articolazione di ordine superiore deve mettere le articolazioni sottostanti nelle condizioni di espletare al meglio le proprie funzioni, valorizzandole e supportandole.
La sussidiarietà, inoltre, non può essere disgiunta dal principio di solidarietà, che impone l’aiuto tra le parti in caso di effettiva necessità. Solo tenendo conto di tutti questi aspetti si può realizzare in modo corretto il principio di sussidiarietà, che nel suo pieno significato impone alle istituzioni di agire in funzione e al servizio della crescita della società civile, partendo dal riconoscimento e dalla concreta valorizzazione delle sue espressioni, ed assumendo il sostegno reciproco come criterio guida nella ripartizione dei compiti. Un’interpretazione riduttiva del principio di sussidiarietà nel rapporto tra amministrazioni pubbliche e società civile può avere, invece, effetti distorti. Ad un estremo, se l’attore pubblico interviene in modo eccessivo rischia di incentivare passività e assistenzialismo colonizzando con i propri codici quelli delle altre articolazioni della società. All’estremo opposto, se vengono sottolineate solo le prime due dimensioni a discapito della funzione promozionale e del principio di solidarietà, la sussidiarietà rischia di diventare un alibi per legittimare il ritiro e il disimpegno delle pubbliche amministrazioni, che possono giungere così a perdere di vista i propri doveri di solidarietà favorendo la disintegrazione sociale.
Molto spesso l’attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale nel nostro paese appare sbilanciata in questa’ultima direzione: gli enti pubblici sembrano interpretarlo come la delega alle famiglie e alla società civile di funzioni che non sarebbero in grado di svolgere efficacemente o che non potrebbero riuscire a svolgere per mancanza di risorse. In questo modo il principio di sussidiarietà viene completamente rovesciato, dato che di fatto è la società civile che viene chiamata a coprire lacune e deficienze dell’ente pubblico.
Per una riflessione sulla concreta attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale, è possibile fare riferimento a quattro diversi modelli possibili, osservando la posizione che la famiglia può trovarsi ad assumere in ognuno di essi[7]:
1. Sussidiarietà come pura esternalizzazione dei servizi, vale a dire affidamento a un soggetto privato di un servizio pubblico, solitamente realizzato attraverso la stipula di una convezione. Dopo il riconoscimento costituzionale del principio di sussidiarietà orizzontale, questa prassi viene solitamente giustificata proprio come attuazione di tale criterio guida, pur essendo in realtà già molto diffusa in precedenza. Infatti, la tendenza all’esternalizzazione si è imposta soprattutto come approccio strategico utilizzato dagli enti pubblici al fine di garantire l’espletamento di servizi alla persona in modo più efficace, efficiente e rispondente a criteri di economicità rispetto alla gestione diretta. Come è stato osservato, «in questo quadro l’esternalizzazione di compiti pubblici è la conseguenza di un’applicazione invertita del principio di sussidiarietà che procede dall’alto al basso (top down) anziché viceversa (bottom up). È infatti l’ente pubblico che decide quali compiti sia opportuno esternalizzare sulla base di logiche decisionali interne[8]», mantenendo la funzione di programmazione delle caratteristiche del servizio, ed esternalizzando di fatto solo la gestione esecutiva. Si tratta quindi di una prassi, sebbene legittima e finalizzata a obiettivi condivisibili, distante dalla logica sussidiaria propriamente detta. In questa impostazione, attore pubblico e ente privato si relazionano assumendo rispettivamente i ruoli di committente ed esecutore di un compito assegnato. La famiglia entra in questo modello solo come passivo destinatario dei servizi: non sono previste forme di dialogo e interazione tra chi riceve i servizi e chi li predispone. La presenza di un ente privato gestore del servizio, anzi, implica separazione e distanza tra l’attore pubblico che del servizio stesso è titolare e le famiglie che ne usufruiscono. La attribuzione delle responsabilità e dei compiti a ogni soggetto coinvolto può restare oscura per le famiglie, che difficilmente riusciranno a identificare l’interlocutore al quale esprimere i propri effettivi bisogni.
2. Sussidiarietà per progetti: con questa definizione si può indicare la prassi solitamente seguita dagli enti pubblici nel momento in cui vengono individuati bisogni ritenuti meritevoli di attenzione rispetto ai quali non esistono risposte adeguate né da parte dell’ente pubblico stesso né da parte di organizzazioni private. L’ente pubblico si muove così al fine di sollecitare la presentazione di proposte progettuali da parte dei soggetti privati, fissando gli obiettivi di fondo e i criteri di valutazione dei progetti. Questo secondo modello presenta caratteristiche maggiormente rispondenti ad alcuni principi basilari della sussidiarietà orizzontale, dato che l’ente pubblico può esercitare una funzione di stimolo e valorizzazione delle proposte delle organizzazioni private, che sono chiamate a collaborare espletando anche una funzione progettuale e non meramente gestionale. Tuttavia, siamo ancora in presenza di una logica prevalentemente top down, dato che la definizione delle necessità e degli obiettivi resta in mano all’ente pubblico, che finisce così per incanalare le iniziative dei soggetti privati in determinate direzioni. Anche in questo caso, il ruolo della famiglia non viene tematizzato se non nei termini di passivo destinatario degli interventi. L’ente pubblico si riconosce la capacità di individuare i bisogni ai quali è opportuno dare risposta, senza che questo implichi la ricerca di forme di interazione e dialogo con i destinatari degli stessi.
3. Sussidiarietà come valorizzazione delle iniziative di privati: se correttamente inteso, questo modello è particolarmente aderente al concetto di sussidiarietà orizzontale perché in questo caso l’ente pubblico «si impegna a riconoscere e sostenere a posteriori quelle iniziative realizzate da privati che si impongono all’attenzione della società in quanto benemerite ed eccellenti[9]». In quest’ottica l’ente pubblico incoraggia e sostiene l’iniziativa della società civile, indipendentemente dal fatto che l’ente stesso possa essere in grado di organizzare servizi affini. La definizione degli obiettivi, la programmazione e l’esecuzione degli interventi restano in mano al privato, mentre il pubblico si limita a valorizzare le attività svolte senza ulteriori ingerenze. Questo modello di sussidiarietà, tuttavia, può prestarsi a interpretazioni fuorvianti. Infatti, la valorizzazione delle iniziative dei privati dovrebbe partire dall’osservazione e dalla conoscenza delle stesse. Relativamente alle reti familiari, quindi, l’attore pubblico dovrebbe in primo luogo approntare strumenti che consentano di evidenziare quali sono le esigenze dei propri membri rispetto ai quali la famiglia è in grado di funzionare in modo adeguato e senza eccessivi costi, intervenendo a sostegno negli ambiti in cui le reti familiari si rivelano più fragili. Se non vengono attivati canali di conoscenza e ascolto, il rischio è che le “iniziative” della famiglia vengano date per scontate, come se dalla forza dei legami familiari potesse conseguire automaticamente la capacità di rispondere a ogni difficoltà. Per questa via l’attore pubblico può usare il principio di sussidiarietà come legittimazione di una prassi che pare rispondere piuttosto a esigenze di economicità, e che ha contribuito a determinare il nodo critico del familismo ambivalente nel sistema di welfare italiano.
4. Sussidiarietà senza apparato istituzionale di gestione: tendenzialmente, si tratta del modello più evoluto attraverso il quale un ente pubblico dà attuazione al principio di sussidiarietà. L’ente pubblico non si pone più come responsabile dell’erogazione dei servizi (in forma diretta o esternalizzata) ma diventa regolatore del sistema nel suo complesso, assumendo il ruolo di facilitatore dell’incontro e dello scambio tra i diversi attori presenti. Questo fine può essere raggiunto con strumenti come voucher e buoni servizio[10]che consentono all’ente pubblico di garantire la qualità delle prestazioni e favorire l’incontro tra soggetti erogatori e famiglie che fruiscono dei servizi senza ingerenze sulla definizione degli obiettivi e sulla progettazione, oltre che di valorizzare le iniziative spontanee della società civile. Anche in questo caso, molto dipende da come il modello viene effettivamente implementato. Se l’utilizzo di buoni servizio e voucher prevede percorsi rigidi entro i quali i fruitori non hanno sostanziale libertà di scelta, si rischia di andare a creare una forma di esternalizzazione solo apparentemente diversa dal primo modello descritto.
Una piena realizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale, quindi, richiede in ogni caso
un ripensamento profondo delle logiche di azione dell’ente pubblico, che non può ridursi ad una superficiale operazione terminologica e formale.
Una ricerca nell’ambito della cura familiare della non autosufficienza
Al fine di riflettere sulla direzione auspicabile per il disegno delle politiche di sostegno alla famiglia nell’ottica della sussidiarietà orizzontale si possono osservare gli esiti prodotti da una ricerca recentemente svolta in Toscana nell’ambito della cura familiare di anziani non autosufficienti[11]. L’attenzione è stata focalizzata sulla figura del caregiver familiare, ossia la persona che, appartenente al nucleo familiare e parentale o stretto da vincoli di affinità, «continuativamente elargisce cura, assistenza, accudimento, controllo, oppure è responsabile della organizzazione di risorse familiari e/o a pagamento, del rapporto di mediazione con i servizi[12]». La ricerca è stata effettuata attraverso lo svolgimento di interviste biografiche[13]; la scelta di questo strumento ha trovato ragione sia nel convincimento che esso consentisse di recuperare in modo appropriato la complessità della situazione osservata, sia nella volontà di penetrare il vissuto del familiare che cura a partire dal suo punto di vista, facendo emergere in modo approfondito la dimensione soggettiva dell’esperienza di cura.
Si è focalizzato l’interesse sulle forme di realizzazione della solidarietà intergenerazionale; per questo non sono state prese in considerazione situazioni di coppie di anziani in cui è un coniuge ad occuparsi dell’altro. Allo stesso modo sono stati esclusi i casi di anziani privi di una rete familiare[14] (sia per non averla mai creata, sia per averla persa a causa di decessi o gravi conflitti relazionali). Il profilo del caregiver[15] tipo che emerge dalle interviste effettuate è così quello di una donna, di età compresa tra i 45 e i 60 anni, coniugata con figli non ancora svincolati dalla famiglia di origine, casalinga o con un’occupazione generalmente part time[16]. L’anziano curato è solitamente un genitore proprio o del marito; in conformità con le statistiche demografiche che attestano la maggiore longevità della donna si tratta quasi sempre della madre o della suocera. Quasi tutti gli anziani hanno con il familiareun rapporto di convivenza o quasi convivenza, ossia di prossimità abitativa con contatti quotidiani[17]. I caregiver cui è stata proposta l’intervista sono stati segnalati per metà grazie alla mediazione dei servizi sociali, per metà attraverso reti informali: si è così potuto indagare sia la situazione di chi ha scelto di inserire i servizi pubblici nella propria strategia di cura, sia di chi non l’ha fatto.
Strategie di cura, fattori di stress e fattori di protezione per il careviger familiare
Le esigenze di cura degli anziani che devono essere gestite dal familiare sono connesse, ovviamente, alle loro condizioni fisiche e mentali. Anche se in alcuni casi la non autosufficienza può essere scatenata in modo repentino da eventi traumatici, dalle narrazioni emerge che di solito si assiste ad una involuzione nel tempo nelle condizioni degli anziani lungo due dimensioni principali: la perdita progressiva di lucidità mentale e la perdita progressiva di capacità fisiche e di mobilità, fino alla più radicale forma di non autosufficienza, il confinamento, che porta l’anziano a vivere immobilizzato a letto o in poltrona. Innegabilmente la gestione di questa condizione è gravosa, anche dal punto di vista fisico. Tuttavia, per i caregiver ascoltati risultano essere maggiormente difficoltose e stressanti le situazioni in cui sopravviene il deterioramento mentale dell’anziano. In questi casi il familiare deve essere continuamente sorvegliato, diventa impossibile effettuare una programmazione degli interventi di aiuto e di conseguenza conciliarli con altri impegni quotidiani. Inoltre, con un anziano non più lucido il familiare che cura può trovarsi a vivere l’ulteriore frustrazione di essere costretto a relazionarsi con un genitore ormai estraneo, irriconoscibile.
Le mansioni di cura, quindi, variano di intensità in base alle condizioni dell’anziano, e possono comprendere sia sostegno di vario tipo alle attività della vita quotidiana (alimentazione, igiene personale, sorveglianza, sostegno alla mobilità), sia aspetti paramedici (somministrazione di farmaci), sia attività strumentali quali le pulizie della casa, lo svolgimento di commissioni e pratiche burocratiche o l’accompagnamento all’esterno. A ciò si somma (anche nei casi in cui le mansioni pratiche sono delegate ad altri soggetti) la responsabilità complessiva di supervisione e coordinamento della situazione dell’anziano congiunto. Tale funzione di regia, che diventa più complessa con l’aggravarsi delle condizioni dell’anziano, viene ripetutamente citata dai caregivercome fonte di preoccupazione e ansia.
Anche nei casi in cui viene fatto ricorso ad aiuti esterni, dall’indagine effettuata emerge come la cura del familiare anziano non autosufficiente abbia sempre pesanti conseguenze sulla vita di chi se ne occupa: tutte le attività quotidiane e le altre relazioni vissute vengono riviste e riadattate tenendo conto di tale impegno. Spesso icaregiver sono costretti a pianificare in modo rigido le proprie giornate, e a subire una drastica riduzione del tempo disponibile per la cura di sé e per attività di svago e riposo.
Oltre alle mansioni richieste dalle condizioni dell’anziano e alla disponibilità più o meno ampia di aiuti, nei racconti dei caregiver si possono individuare altri fattori che concorrono a rendere la situazione del familiare che cura più o meno gravosa. Tra questi si possono evidenziare i seguenti:
· la presenza di eventuali impegni lavorativi;
· il ruolo della propria famiglia di elezione, che può risultare ambivalente. Da un lato può costituire infatti un aggravio di compiti da svolgere (cura della propria casa, compiti di accudimento dei figli e del coniuge) o generare sensi di colpa (per il timore di aver trascurato i propri doveri familiari, per aver dovuto coinvolgere figli e coniuge nell’accudimento dell’anziano). Allo stesso tempo, però, può rivelarsi una risorsa fondamentale, sia nella collaborazione alle mansioni di cura, sia soprattutto nel conforto emotivo e relazionale. È quest’ultima accezione che sembra prevalere nei racconti ascoltati; la cura del familiare anziano viene così avvertita come particolarmente pesante da chi è privo di risorse familiari proprie;
· la presenza di problemi economici;
· l’esistenza di problemi di salute del caregiver stesso o di altri familiari, oppure la presenza di due anziani non autosufficienti da accudire nello stesso nucleo;
· eventuali conflitti con altri membri della famiglia. Si è osservato che solitamente, anche quando l’anziano ha più figli, è solo uno di questi che diventa caregiver. Tuttavia, una condivisione almeno parziale della responsabilità organizzativa e dell’impegno materiale con i fratelli costituisce un forte fattore di protezione; al contrario, situazioni di assenza e delega o addirittura di conflitto aggravano notevolmente la percezione delle difficoltà;
· la qualità del rapporto con l’anziano stesso, sia nella precedente vita in comune sia nel momento della cura: la possibilità di continuare a coltivare, o anche intensificare, il legame significativo con il familiare anziano, così come di percepire la sua gratitudine, sono avvertiti come importanti fattori di motivazione e di riconoscimento identitario.
La situazione di un familiare impegnato nella cura di un anziano non autosufficiente, quindi, si configura come complessa e gravosa. Molte sono le variabili che entrano in gioco a delineare la situazione di soggetti che si trovano sottoposti a fattori di stress che possono condurre ad una condizione di burn out. Porsi in modo realmente sussidiario rispetto alle esigenze delle famiglie evitando la deriva delfamilismo ambivalente implica necessariamente prendere in considerazione tali variabili nel disegno di interventi rivolti ad anziani non autosufficienti.
Nella tabella 1 vengono sintetizzati i fattori di stress del caregiver e, in modo speculare, i fattori di protezione che possono sostenere l’attività di cura del familiare.
Tab. 1
Fattori di stress
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Fattori di protezione
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Grave disabilità fisica dell’anziano, deterioramento delle condizioni mentali
Impossibilità di pianificare le attività di cura
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Anziano con disabilità fisica ma ancora lucido mentalmente, in grado di interazione e collaborazione
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Impegni lavorativi del caregiver
Difficoltà economiche
Difficoltà di salute del caregiver stesso
Ulteriori impegni familiari (cura della casa, cura di figli piccoli, presenza di disabili o di più di un anziano non autosufficiente in famiglia)
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Assenza di problematiche personali, di salute, lavorative ulteriori
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Senso di abbandono: percezione dell’assenza di aiuti disponibili fuori dalla famiglia, o che non sarebbero adeguati, o che le pratiche burocratiche per ottenerli sarebbero complesse
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Disponibilità di aiuti nello svolgimento delle mansioni di cura nei modi e nei tempi richiesti
Presenza di forme specifiche di sostegno
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Mancanza di una propria rete familiare di sostegno
Conflitti intrafamiliari
Conflitti con il familiare anziano
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Buona rete familiare di sostegno, condivisione della cura con famiglia di elezione e/o fratelli
Possibilità di condividere le decisioni rispetto alla cura
Buon rapporto con l’anziano curato
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È a partire da questa complessità che il caregiver elabora strategie di cura che vanno a includere aiuti esterni alla famiglia. Sulla base della gravità dell’anziano curato e alla concomitanza dei fattori sopra ricordati, i familiari ascoltati narrano come tali aiuti siano reperiti in un crescendo che va dalle poche ore al giorno di copertura con la delega di limitate e definite attività, ad una copertura totale con la conservazione da parte del caregiver della sola supervisione globale. In particolare, l’indagine ha mostrato che tutti i familiari inizialmente cercano di gestire la situazione in proprio o, quando è possibile, con l’aiuto degli altri congiunti; ma che inevitabilmente essi si trovano prima o poi nella necessità di ricorrere a forme di aiuto esterne, pur continuando a sentire come propria la responsabilità delbenessere dell’anziano e pur manifestando il desiderio di mantenere il familiare a domicilio[18].
Secondo quanto emerge dalle narrazioni i caregiver seguono una linea strategica sostanzialmente analoga nel reperimento di aiuti esterni[19]. Compatibilmente con la disponibilità di risorse economiche, si rivolgono anzitutto al mercato privato. Le prime mansioni che vengono delegate sono quelle relative alle pulizie domestiche, successivamente le dimensioni della cura attinenti all’igiene personale, fino all’assunzione di personale che possa occuparsi a tempo pieno delle esigenze materiali dell’anziano. In genere tali aiuti privati non sono reperiti presso enti del terzo settore o del privato sociale, ma attraverso contatti personali e informali, e non sempre sono contrattualizzati regolarmente. È in questo quadro che si inserisce il diffusissimo fenomeno delle badanti[20].
Il ricorso ai servizi pubblici compare eventualmente solo in un secondo momento. Chi non ha mai chiesto l’intervento dei servizi sociali tende ad avere di essi un’immagine confusa e viziata dal pregiudizio, non identificandoli come attori in grado di offrire sostegno. Emerge dalle narrazioni raccolte l’idea che i servizi intervengano solo per chi non ha famiglia, e che comunque le prestazioni erogate sarebbero troppo rigide e standardizzate per essere utili. Anche chi ha inserito prestazioni pubbliche nel proprio modello di cura (ad esempio con l’utilizzo di un centro diurno o di interventi di assistenza domiciliare) tende a manifestare un atteggiamento simile, nel senso che viene sottolineato che finché possibile, tutto è stato fatto in famiglia. Sembra insomma esistere una barriera tra famiglia e servizi che viene infranta solo in ultima istanza, quando non se ne può fare a meno a causa della concomitanza tra aggravamento dell’anziano e presenza di uno o più tra i fattori individuati come particolarmente critici.
In modo sintetico, la tabella 2 riporta le mansioni di cura più comunemente presenti, indicando
per ognuna se tendenzialmente viene ritenuta o meno delegabile da parte delcaregiver familiare. Va evidenziato che tutte le attività delegabili lo sono solo a condizione di poter fruire di aiuti flessibili e personalizzati nei modi e nei tempi. Inoltre, di solito la delega non si configura come assoluta ma come condivisione con altri delle mansioni da svolgere (in percentuali variabili)
Tab. 2 | Mansione di cura | Delegabile |
Pulizie domestiche – commissioni | Si | |
Adempimenti burocratici | No | |
Relazione – aspetti di personalizzazione della cura | No | |
Aspetti paramedici | Si | |
Sorveglianza | Si | |
Sostegno alla mobilità | Si | |
Igiene personale | Si | |
Alimentazione | Si | |
Accompagnamento all’esterno | Si | |
Regia o management della cura | No |
Indicazioni per lo sviluppo di efficaci servizi di sostegno alle famiglie che curano
Dalle narrazioni raccolte emerge una tendenziale sfiducia da parte dei nuclei familiari di anziani non autosufficienti verso i servizi pubblici, che non sono percepiti come valido punto di riferimento a disposizione per ottenere un aiuto sostanziale. Ciò da un lato può essere legato ad un’immagine pregiudiziale che deriva da scarsa conoscenza, fatto che potrebbe essere superato con un adeguato lavoro di informazione e comunicazione che possa raggiungere la generalità delle famiglie attraverso opportuni canali (ad esempio, i medici di medicina generale). D’altro lato, i servizi pubblici sono chiamati a rivedere le proprie logiche d’azione, investendo non solo nell’erogazione diretta di prestazioni o benefici monetari, quanto nell’assumere un ruolo diverso a tutela delle famiglie, accompagnandole nel loro ciclo vitale e favorendo l’incontro tra reti familiari e altri soggetti del sistema di welfare.
In quest’ottica, assume grande importanza strategica l’utilizzo di procedure appropriate di valutazione e progettazione. La valutazione di situazioni complesse quali la non autosufficienza dovrebbe essere necessariamente multidimensionale e multiprofessionale, con l’utilizzo di strumenti adeguati a mettere in comunicazione linguaggi tecnici diversi. La progettazione dovrebbe sempre coinvolgere il potenziale beneficiario, e non ridursi a incanalare le richieste in rigidi percorsi predefiniti.
Solitamente, i pacchetti di prestazioni previsti dagli enti locali in favore degli anziani non autosufficienti sono tarati principalmente sull’erogazione di attività di cura per l’anziano, che indirettamente possono svolgere anche una funzione di sostegno e sollievo per il caregiver familiare: assistenza domiciliare diretta o sotto forma divoucher, centro diurno, ricoveri temporanei in residenze socioassistenziali, assegni di cura (che vanno a sommarsi all’indennità di accompagnamento erogata a livello statale)[21]. Quando un anziano è curato a domicilio da un familiare, ogni progetto di intervento elaborato nell’ambito dei servizi pubblici dovrebbe invece opportunamente tenere conto non del singolo individuo, ma dell’intero sistema familiare coinvolto. La prospettiva da adottare è quella che viene definita dual focus of caring, ossia la valutazione globale dei bisogni di chi cura e di chi è curato, alla quale dovrebbe seguire la progettazione co-costruita con i beneficiari di progetti finalizzati a ottenere una mediazione ottimale tra tutti gli interessi presenti, con la previsione anche di servizi specifici per il caregiver. A questo scopo una valutazione efficace dovrebbe rilevare tra l’altro la presenza di quei fattori che, come confermato anche dalla ricerca svolta, possono incidere sulla condizione del caregiver, ponendolo particolarmente a rischio di burn out.
I caregiver ascoltati sottolineano spesso la difficoltà di accedere alle risorse messe a disposizione dall’attore pubblico a causa della scarsa informazione in merito, delle procedure complesse e della necessità di relazionarsi con una molteplicità di uffici e soggetti diversi (ad esempio per la richiesta dell’assegno di accompagnamento rispetto alla fruizione delle misure comunali). La creazione di un unico ufficio[22] in cui incontrare un referente che possa fornire informazioni chiare e complete oltre ad accompagnare e mediare nella fruizione di tutte le prestazioni disponibili, con procedure il più possibile unificate e semplificate, sarebbe un sostegno molto utile, che consentirebbe di sostenere e affiancarsi al familiare che cura senza sostituirsi ad esso.
Inoltre, dalle narrazioni raccolte, emerge come per i caregiver proprio la regia complessiva della cura sia avvertita come specifica responsabilità nei confronti del familiare anziano, che non viene affidata ad altri anche nel momento in cui sono coinvolti soggetti esterni. Al pari delle dimensioni affettive e relazionali della cura, la regia può essere vista come aspetto non delegabile, percepita dal familiare come propria specifica responsabilità nel garantire il benessere del congiunto come nessun altro potrebbe/saprebbe fare. Allo stesso tempo, però, tale compito viene frequentemente percepito come fonte di incertezze e ansia. I familiari che curano, infatti, spiegano come la situazione di un anziano non autosufficiente sia instabile, soggetta a continue modifiche che implicano il continuo riadattamento delle misure prese e delle strategie di cura adottate. Sono molte le decisioni che devono essere prese, quindi, al fine di cercare di garantire al massimo livello possibile il benessere dell’anziano. La difficoltà aumenta per caregiver completamente soli nella gestione della cura, che non hanno la possibilità di confrontarsi e condividere le decisioni con altri familiari. Queste criticità non possono essere superate meramente con la fruizione di aiuti pratici ed economici. Potrebbe quindi essere utile prevedere servizi di consulenza per i caregiver che offrano aiuto e cooperazione nell’elaborazione di strategie organizzative di gestione del problema, nonché forme di sostegno psicosociale per la rielaborazione di difficoltà esperite e per la gestione delle tensioni, soprattutto nelle situazioni più fragili. Molto utili si sono rivelati come servizio diretto al sostegno del caregiver gruppi di auto-mutuo aiuto, eventualmente coordinati da professionisti[23].
Tra i fattori di stress per i caregiver è richiamata, inoltre, l’esistenza di conflitti con membri del nucleo familiare. La risposta opportuna a questa difficoltà potrebbe essere un servizio di mediazione familiare, che aiuti i componenti del nucleo ad elaborare una riflessione e una lettura comune, a esprimere e ricomporre i conflitti creando un equilibrio più funzionale in risposta a un evento critico come la non autosufficienza di un proprio congiunto.
Un servizio pubblico che non pone attenzione alle dimensioni fin qui richiamate, e che si limita a prevedere l’erogazione di prestazioni e benefici economici, non va in direzione di una piena realizzazione della sussidiarietà orizzontale. Non accoglie, infatti, la complessità delle richieste poste da un nucleo familiare che include un anziano non autosufficiente, non si pone a fianco della famiglia che cura sostenendo e potenziando le risorse esistenti, e finisce per imporre la propria logica, con un’azione più suppletiva che sussidiaria. Questo non significa certo che i servizi direttamente a supporto della cura non siano necessari; non avrebbe senso migliorare le funzioni di consulenza e accompagnamento dell’attore pubblico se non esistessero risorse da mettere a disposizione. Anzi, i servizi presenti andrebbero senza dubbio potenziati, anche con la previsione di opportune forme di compartecipazione che possano ampliare la platea dei beneficiari. Il disegno di ogni prestazione, però, dovrebbe andare incontro alle effettive richieste delle famiglie. Dai racconti ascoltati emerge con forza l’esigenza di interventi personalizzati e flessibili, che tengano conto delle caratteristiche specifiche di ogni situazione e che possano essere fruiti nei modi e nei tempi ritenuti idonei dal beneficiario. È proprio la mancanza di queste caratteristiche che porta i caregiver familiari, ove possibile, a privilegiare le soluzioni private, ed è questa esigenza unita alla necessità di contenere i costi che ha fatto emergere il mercato delle badanti. Proprio in questa direzione, peraltro, potrebbe aprirsi un ulteriore rilevante spazio di intervento dell’attore pubblico. I servizi sociali, infatti, potrebbero non soltanto offrire sostegno economico alle famiglie che fanno ricorso a questa soluzione, ma diventare il luogo privilegiato di incontro tra badanti e famiglie, a garanzia e tutela della qualità del rapporto per entrambi i soggetti coinvolti. In questa direzione andrebbe a configurarsi il ruolo dell’attore pubblico come mediatore dei rapporti tra famiglia e altri soggetti del sistema di welfare, a sostegno effettivo del ruolo di regia della cura del caregiver familiare.
L’indagine svolta conferma, quindi, l’importanza che possono rivestire servizi leggeri per sostenere le famiglie “normali”, non solo quelle con conclamate carenze e difficoltà. Come è stato osservato, «quando la famiglia è quasi normale ed è in grado di programmare da sola il sistema di aiuti, allora molti servizi professionali non riescono a trovare la giusta misura, che consiste nello stare a fianco senza imporsi, sorreggere quel tanto che basta a prolungare la routine che il nucleo familiare si è dato spontaneamente[24]», con servizi in grado di lasciare la regia alla famiglia, offrendo aiuti e supporti funzionali. Disegnare interventi di questo tipo potrebbe consentire ai cittadini di recuperare fiducia nei servizi e nella possibilità di chiedere aiuto, senza barriere pregiudiziali.
In sintesi, nella tabella seguente si riportano alcune indicazioni auspicabili nello sviluppo dei servizi, così come emerse dalla riflessione sui risultati della ricerca svolta:
Tab. 3
Fattori di stress
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Indicazioni per lo sviluppo di servizi di sostegno
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Grave disabilità fisica dell’anziano, deterioramento delle condizioni mentali
Impossibilità di pianificare le attività di cura
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Prestazioni di sostegno alle attività di cura erogate in forme effettivamente flessibili e personalizzate, aperte ad un’ampia platea di destinatari anche attraverso compartecipazione economica
Mediazione con erogatori di servizi del terzo settore e con badanti; accertamento della qualità dei servizi prestati
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Impegni lavorativi del caregiver
Difficoltà economiche
Difficoltà di salute del caregiver stesso
Ulteriori impegni familiari (cura della casa, cura di figli piccoli, presenza di disabili o di più di un anziano non autosufficiente in famiglia)
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Valutazione multiprofessionale nella logica del dual focus of caring
Consulenza psicosociale
Consulenza organizzativa di sostegno all’attività di regia della cura
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Senso di abbandono: percezione dell’assenza di aiuti disponibili fuori dalla famiglia, o che non sarebbero adeguati, o che le pratiche burocratiche per ottenerli sarebbero complesse
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Comunicazione chiara e più efficace sui servizi disponibili e i criteri di accesso
Punto unico di accesso per le diverse prestazioni, procedure burocratiche semplificate
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Mancanza di una propria rete familiare di sostegno
Conflitti intrafamiliari
Conflitti con il familiare anziano
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Gruppi di auto-mutuo aiuto
Mediazione familiare
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Conclusioni
La piena realizzazione della sussidiarietà orizzontale, in tutte le sue dimensioni e in coerenza con il principio di solidarietà, implica una revisione delle logiche di azione con le quali l’attore pubblico si relaziona con le reti familiari. Agire in questa direzione, peraltro, è necessario per uscire dalla gabbia del familismo ambivalente, dando sostanza ai continui richiami dei più recenti atti normativi alla famiglia come attore centrale del sistema di welfare, meritevole di sostegno e aiuti. Si tratta di un obiettivo improrogabile in una configurazione caratterizzata da trasformazioni demografiche e socio-economiche che mettono le reti familiari a dura prova, con il rischio che la risorse familiari possano logorarsi ed esaurirsi sotto il peso di compiti troppo gravosi.
Da questo punto di vista, come emerso dai risultati della ricerca presentata, risulta emblematico il problema della cura degli anziani non autosufficienti. Le trasformazioni socio-demografiche che si sono verificate negli ultimi decenni, infatti, stanno rendendo sempre più difficoltoso per le famiglie gestire autonomamente tale compito. Tra i fattori centrali di questa trasformazione basti ricordare la maggiore partecipazione della donna al mercato del lavoro, l’innalzamento dell’età del matrimonio e del primo parto che portano la donna a essere stretta tra cura dei genitori anziani e dei figli non ancora autonomi, la diversificazione delle forme familiari e la crescita di complessità nei legami familiari a seguito della diffusione di convivenze, divorzi e successive nuovi unioni. A tutto ciò si aggiungono le dinamiche demografiche che hanno accelerato in modo vertiginoso il processo di invecchiamento della popolazione: i bassi tassi di natalità comportano famiglie sempre meno numerose, che devono occuparsi della cura di anziani più longevi dato l’innalzamento della vita media. Questo non significa necessariamente che le famiglie non possano più essere viste come luogo privilegiato di realizzazione della solidarietà intergenerazionale[25]. Al contrario, come è stato osservato[26], la trasformazione della società italiana nel tempo non è andata nella direzione di una scomparsa delle reti familiari, ma piuttosto verso una crescente complessità e ramificazione di esse, sempre più fondate sulla significatività dei legami e sulle dinamiche relazionali. Quindi, in generale le famiglie risultano mantenere forti relazioni di scambio e di trasmissione tra le generazioni, ma la realizzazione di tali scambi diventa problematica. Come evidenzia Donati[27], «se e come la famiglia potrà agire da soggetto di equità intergenerazionale dipenderà in buona misura dalle relazioni che essa potrà intrattenere con le altre sfere sociali»; ossia dipenderà dal modo in cui saranno disegnate nel sistema di welfare nazionale i rapporti sussidiari tra pubbliche amministrazioni, famiglie, mercato, terzo settore. Tali osservazioni sono coerenti con i risultati della ricerca presentata, che evidenziano tanto la disponibilità dei familiari alla cura dei propri congiunti anziani e il senso di responsabilità avvertito in proposito, quanto l’esigenza di reperire aiuti esterni alla rete familiare per la progettazione e la realizzazione delle attività connesse alla cura.
La famiglia non può, quindi, essere evocata come realtà astratta e ideale né come sfondo dato per scontato rispetto agli interventi proposti. Per favorirne in modo sostanziale la “attivazione” è necessario che venga considerata come attore e soggetto in relazione attraverso i propri codici con gli altri attori del sistema di welfare. Nell’ambito delle politiche per la non autosufficienza, in particolare, parole chiave come centralità della famiglia e sussidiarietà sono accompagnate da altre espressioni continuamente ripetute: riconoscimento e sostegno delle responsabilità familiari nella cura, necessità di favorire il mantenimento a domicilio attraverso interventi flessibili e personalizzati[28]. Se non riempite di significato operativo tali espressioni sono destinate a restare lettera morta.
L’ottica della sussidiarietà impone di agire in relazione e a fianco delle reti familiari, creando canali efficaci di incontro e dialogo, senza proporre rigidi percorsi predefiniti di prestazioni. Proprio per questo si ritiene fondamentale la realizzazione di indagini conoscitive che consentano di individuare forme di sostegno misurate sulle effettive richieste ed esigenze delle famiglie, favorendo la successiva implementazione di azioni in grado di stimolare tutte le potenzialità insite nelle reti familiari, intervenendo in senso concretamente sussidiario.
Una piena realizzazione di questi principi richiede un profondo ripensamento sia del disegno complessivo delle politiche per la non autosufficienza, sia della loro traduzione operativa. Da un lato sono da eliminare interventi e prestazioni che agiscano in modo residuale, facendo seguito al collasso della rete familiare. Sul versante opposto vanno evitati servizi che si sostituiscano alla cura familiare, attraverso un’imposizione rigida di set di prestazioni che ignorano la specificità della famiglia come soggetto della società civile: anche dalla ricerca qui proposta appare evidente come sia forte da parte delle famiglie la richiesta di trasparenza e linearità nei rapporti con gli attori chiamati a offrire sostegno alla cura, così come di interventi flessibili e adattabili alla specificità di ogni situazione. Occorre insomma che in ogni fase venga superata definitivamente l’idea dell’alternatività tra sfera di sostegno formale e sfera informale: i servizi non dovrebbero essere pensati per supplire alle reti informali ma in funzione della presenza e delle effettive caratteristiche delle reti e delle risorse presenti per sussidiarle, evitando che si esauriscano a causa del sovraccarico di lavoro. L’attore pubblico dovrebbe assumere il ruolo di facilitatore, offrendo un sostegno che permetta di implementare le risorse presenti, sostenendole in un’ottica di empowerment e favorendo l’incontro e il dialogo tra reti familiari e altri attori privati e di terzo settore, nel rispetto degli specifici codici comunicativi di ogni soggetto. Va evitato il rischio di strumentalizzare valori morali e senso del dovere dando per scontato che, in nome di essi, i familiari siano in grado di gestire ogni situazione problematica: «strumentale può diventare l’implicito invito alle famiglie ad attingere al patrimonio dei loro valori, come se fosse possibile poi, per i soggetti coinvolti nella cura, trasformarli automaticamente in risorse psicologiche, fisiche, emotive, economiche, sino a rendere la famiglia l’unico soggetto responsabile della cura stessa[29]».
Si impone, quindi, un ripensamento profondo che non può ridursi meramente all’introduzione di singoli nuovi pacchetti di interventi. Si tratta di cambiamenti che non sono pensabili in tempi brevi, perché si scontrano con la latenza delle logiche di funzionamento delle organizzazioni, mirando a incidere su realtà complesse in cui sono implicate dimensioni normative, burocratico-organizzative, professionali: proprio la complessità delle trasformazioni richiamate ne rende urgente l’avvio.
Infine, va ricordato che in assenza di adeguate risorse economiche, strumentali, di personale e professionali non è certo pensabile poter raggiungere i fini indicati. Un maggiore investimento destinato ai servizi e agli interventi per le famiglie è quindi un punto di partenza obbligato.
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[1] Saraceno, 1994.
[2] “La vita buona nella società attiva”: è questo il titolo del Libro Bianco sul futuro del modello sociale approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 maggio 2009 e presentato dal Ministro Sacconi a Palazzo Chigi.
Il Libro Bianco raccoglie le indicazioni del Libro Verde presentato nel 2008 e i contributi giunti al Ministero a seguito della consultazione pubblica che il Libro Verde ha avviato. Entrambi i documenti sono consultabili al sito www.lavoro.gov.it
Il Libro Bianco raccoglie le indicazioni del Libro Verde presentato nel 2008 e i contributi giunti al Ministero a seguito della consultazione pubblica che il Libro Verde ha avviato. Entrambi i documenti sono consultabili al sito www.lavoro.gov.it
[3] Libro Bianco sul welfare, pag. 14.
[4] Gori, 2005 facendo un bilancio della legislatura 2001-2006 per le politiche sociali osserva come queste siano state caratterizzate da un mix di obiettivi astratti e scarne indicazioni operative: “avanzando su tale terreno, i concreti problemi di minori, poveri, anziani sfumano progressivamente per tramutarsi nell’imperativo di sostenere una generica famiglia, più ideale che reale” pag. 1108. Sul Libro Bianco sul futuro del modello sociale, vedi Ranci Ortigosa, 2009.
[5] In base al principio di sussidiarietà una società di ordine superiore non deve privare delle sue competenze una società di ordine inferiore, ma supportarla in caso di necessità. Sulla definizione, l’origine nella Dottrina sociale della Chiesa cattolica e l’evoluzione storica del concetto di sussidiarietà vedi Donati e Colozzi, 2005.
[6] Cfr Colozzi 2002, Donati e Colozzi 2005.
[7] Cfr. Maccarini, 2003.
[8] Maccarini, 2003, pag. 120.
[9] Maccarini, 2003 pag. 123.
[10] Per un approfondimento sui singoli strumenti cfr Maccarini, 2003.
[11] La ricerca è stata condotta nel territorio della ASL 4 di Prato nel 2005. Si tratta di un contesto in cui la cura degli anziani non autosufficienti da parte dei familiari è significativamente presente. Sono stati intervistati complessivamente dieci soggetti tutti residenti entro i confini dell’articolazione territoriale centro-est della ASL. Per una ricognizione sulle condizioni di vita degli anziani a Prato, sulle caratteristiche socio-demografiche della popolazione anziana della città toscana e sui servizi pubblici offerti dalla Asl cfr. Marchetti, 2005.
[12] Taccani, 2004, pag. 258.
[13] Esistono in letteratura molte definizioni di intervista biografica; in questa sede si è fatto riferimento alla proposta definitoria e metodologica di Rita Bichi (vedi in bibliografia).
[14] Si tratta di una percentuale minoritaria rispetto al totale degli anziani non autosufficienti; dato che di per sé indica la vitalità delle reti familiari italiane. Cfr. Cioni, 1999; Paroni e Rizzi, 2004.
[15] Se nei casi di anziani con un unico figlio è abbastanza scontato che sia quest’ultimo ad assumere il ruolo di caregiver del genitore, nei casi di anziani con più figli si era ipotizzato che la gestione della cura fosse condivisa tra più persone. In realtà, si è potuto notare che in tutti i casi osservati emerge sempre una figura che si accolla tale compito in modo esclusivo o decisamente dominante. Tale designazione risulta tendenzialmente automatica nei casi di pregressa convivenza o quasi convivenza. Infatti, è il figlio (o, più frequentemente, la nuora se il figlio è coniugato) che da sempre ha vissuto insieme all’anziano o nelle immediate vicinanze con contatti quotidiani, o che è tornato a vivere con i genitori in seguito a eventi della propria vita (separazione, perdita di lavoro) che, con il progredire dell’età e dei bisogni, assume progressivamente il ruolo di caregiver. Invece, nei casi di distanza abitativa di tutti i figli si assiste a processi di negoziazione più o meno conflittuali per la designazione di chi prende in mano la regia della cura per il genitore anziano o decide di portarlo a vivere con sé. Quando tra i fratelli c’è una sola figlia femmina, agisce l’attribuzione per genere dei compiti di cura; altrimenti, si verificano processi interattivi complessi e delicati, spesso densi di impliciti e sottintesi, in cui entrano in gioco elementi connessi con la storia familiare remota, con motivazioni profonde e miti familiari relativi al mandato dei figli e alla codifica dei loro doveri nei confronti dei genitori. Le norme familiari tramandate assumono una rilevanza decisiva nel motivare un figlio ad assumere il ruolo di caregiver: nei racconti, infatti, oltre al senso di reciprocità e al desiderio di restituire al genitore le attenzioni ricevute nell’infanzia, hanno grande spazio i riferimenti a un senso del dovere molto forte, che sembra obbligare alla cura dei genitori anche a costo di sacrifici, pur di evitare un conflitto interiore insopportabile.
[16] Nonostante le trasformazioni socio-economiche degli ultimi decenni e la maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro, agisce ancora con forza la regola di attribuzione in base al genere dei compiti familiari di cura che li vede assegnati prioritariamente alla donna. Per un approfondimento delle problematiche delle donne appartenenti alla “generazione di mezzo” che possono trovarsi strette in una situazione di doppia lealtà – da un lato il senso di dovere nei confronti dei genitori bisognosi, dall’altro la volontà di essere non un peso e un vincolo ma un sostegno per la propria famiglia d’elezione , vedi la bibliografia.
[17] Cfr. Paroni e Rizzi, 2004.
[18] Si è infatti notato un generalizzato pregiudizio negativo verso la struttura socio-assistenziale, accettata solo come soluzione estrema in casi di deterioramento gravissimo delle condizioni di salute dell’anziano.
[19] Un discorso a parte va fatto relativamente alle esigenze mediche – infermieristiche della cura. In questo caso è generalizzato il ricorso all’aiuto del medico di medicina generale, figura di riferimento per tutti familiare e consueta. È su indicazione del medico che può essere richiesto l’intervento di altri specialisti (geriatra, fisioterapista) o di infermieri domiciliari. Anche in questi ambiti, tuttavia, si è osservato come le famiglie con maggiori disponibilità economica preferiscano rivolgersi al settore privato, nella convinzione di ottenere un servizio più flessibile negli orari e nelle modalità e qualitativamente migliore.
[20] Una riflessione sulla congiunzione di fattori relativi alla struttura del nostro sistema di welfare, al fenomeno migratorio e alle caratteristiche del mercato del lavoro italiano che hanno portato all’esplosione del fenomeno delle badanti si veda ad esempio Da Roit e Castagnero, 2003, cfr Tognetiti Bordogna, 2006.
[21] Per una descrizione e riflessione sulle varie misure di sostegno per gli anziani non autosufficienti, ed in particolare per una discussione su punti di forza e criticità di strumenti più recenti quali voucher e assegni di cura, vedi ad esempio Monteleone, 2005; Da Roit e Castagnero, 2003.
[22] In questa direzione si orientano esperienze regionali, quali ad esempio la recente sperimentazione del PuntoInsieme prevista dalla Regione Toscana. PuntoInsieme è un servizio rivolto alle persone anziane non autosufficienti e ai loro familiari, che intende costituire la porta d'ingresso ai servizi ed alle prestazioni in favore di tali persone. Chi si reca al PuntoInsieme è accolto da un operatore che aiuta nella compilazione di una scheda di segnalazione contenente tutti i dettagli circa lo stato di salute della persona anziana per la quale viene richiesta assistenza.
Successivamente, una équipe di operatori effettua una valutazione di ciascun singolo caso e definisce ilprogetto personalizzato, ovvero il pacchetto di prestazioni ed interventi più appropriati alle condizioni di bisogno della persona non autosufficiente. È prevista inoltre la nomina di un referente unicoalquale rivolgersi durante l'intero percorso.
La definizione del progetto personalizzato, che deve essere condiviso con i familiari dell’assistito, deve avvenire al massimo entro un mese dalla presentazione della segnalazione. Resta da valutare se le modalità di realizzazione del PuntoInsieme all’interno dei singoli distretti saprà cogliere l’intento innovativo del legislatore regionale o si limiterà a riprodurre entro una nuova cornice le precedenti modalità di funzionamento. Ulteriori informazioni sul PuntoInsieme sono reperibili al sitohttp://www.regione.toscana.it/puntoinsieme. Per una rassegna su varie esperienze regionali nella realizzazione di un punto unico di accesso ai servizi, cfr. Bellentani, Simonetti e Guglielmi, 2009.
Successivamente, una équipe di operatori effettua una valutazione di ciascun singolo caso e definisce ilprogetto personalizzato, ovvero il pacchetto di prestazioni ed interventi più appropriati alle condizioni di bisogno della persona non autosufficiente. È prevista inoltre la nomina di un referente unicoalquale rivolgersi durante l'intero percorso.
La definizione del progetto personalizzato, che deve essere condiviso con i familiari dell’assistito, deve avvenire al massimo entro un mese dalla presentazione della segnalazione. Resta da valutare se le modalità di realizzazione del PuntoInsieme all’interno dei singoli distretti saprà cogliere l’intento innovativo del legislatore regionale o si limiterà a riprodurre entro una nuova cornice le precedenti modalità di funzionamento. Ulteriori informazioni sul PuntoInsieme sono reperibili al sitohttp://www.regione.toscana.it/puntoinsieme. Per una rassegna su varie esperienze regionali nella realizzazione di un punto unico di accesso ai servizi, cfr. Bellentani, Simonetti e Guglielmi, 2009.
[23] Cfr. Rossi e Bramanti, 2006.
[24] Toniolo Piva, 2004, pag. 123.
[25] Vedi in particolare Cioni, 1999 per un approfondimento sul tema.
[26] Cfr. Paroni e Rizzi, 2004.
[27] Donati, 2003, pag. 206.
[28] Si può fare di nuovo riferimento al recente Libro bianco sul futuro del modello sociale, ma anche alla legge quadro 328/2000, ai Piani nazionali di intervento sociale successivi a tale legge, a leggi regionali innovative come la legge 41/2005 della Regione Toscana.
[29] Taccani, 2004, pag. 61.